“CANE DA … TARTARUGHE” di Carmelo Chirico

Moschè (nome del famoso generale israeliano Moschè Dayan), elegante setter inglese con una caratteristica macchia nera che gli ricopriva l’occhio sinistro, era il fedele ausiliario di un caro collega di lavoro, che per anni è stato distaccato sui cantieri in Calabria, dall’impresa per cui collaboravamo entrambi.

Tra problemi di progettazione e di esecuzione di lavori, ogni tanto mi ritrovavo a chiacchierare di caccia con i colleghi, quasi tutti toscani, anche loro perduti nel pianeta caccia.
 
In particolare il collega, pur non essendo così accanito cacciatore come gli altri, mi raccontava sempre di battute a fagiani nella zona tra Pisa e Grosseto, dove abitava, e di un cucciolone che lui aveva tirato su, un setter di nome Moschè che lo seguiva nelle sue uscite.

Le sue frequentazioni, non certo assidue, ad inseguire fagiani erano cessate al momento in cui andò militare e Moschè fu affidato alle cure della moglie, pertanto il cane smise di andare a caccia e si diede ad un hobby quanto mai singolare, nelle sue scorribande tra le pinete toscane, molto spesso riportava a casa piccole tartarughe che scovava e faceva sue.

Fu così che, una volta trasferitosi con la famiglia a Reggio Cal. si portò dietro il setter, che nel frattempo era diventato cane di compagnia.

Trascinato dalla mia euforia, il mio amico ingegnere, decise di accompagnarmi in qualche uscita a tordi tra gli uliveti della piana di Gioia Tauro, pagando lo scotto di un modo di cacciare che lui non aveva mai fatto e più di una volta, dopo avere rincorso a schioppettate più di venti tordi, che come saette attraversavano gli alberi secolari, non colpendone nemmeno uno, lo sentivi sacramentare in toscano, imprecando contro tutto e le “maremma…..” di tutti.

Visti i risultati poco incoraggianti, e credendo di fargli cosa gradita, lo convinsi ad un’uscita con il suo setter per vedere se ancora ricordava che era nato per andare a caccia e non per oziare sdraiato su un tappeto, al caldo, aspettando il rancio.

Organizzai un’uscita a quaglie, tra i pianori della costa ionica, che alla fine di ottobre potevano ancora darti soddisfazioni per l’impegno che i tuoi ausiliari dovevano dare per avere ragione della scaltrezza di qualche quaglia del periodo, e come alternativa mi portai dietro una gabbia con due quaglie di allevamento che avrebbero dovuto svegliare gli istinti naturali di Moschè.

La mia cagnetta, un’Espagnol Breton di due anni, dentro la gabbia che la ospitava durante i viaggi, era come assatanata per la presenza di quei due rincoglionìti pennuti nel cofano, e per tutto il viaggio si dannò l’anima, cercando inutilmente di averli a tiro.

Il comportamento di Moschè non faceva presagire nulla di buono, dato che era comodamente stravaccato sul sedile posteriore, in una posizione a dir poco originale: con le quattro zampe all’insù e sdraiato sulla schiena.

Ma il massimo di sè il meraviglioso animale lo diede nel momento in cui, prima di andare alla ricerca di qualche smaliziata pedinatrice, provammo a scuoterlo dal suo torpore casalingo liberando sotto il suo naso le due quaglie di allevamento, con il risultato che pur avendole a soli trenta centimetri, le ignorò completamente, quasi calpestandole più volte, e girovagando alla ricerca di chissà che cosa.

Dopo questo tentativo, non certo incoraggiante, decidemmo di cominciare la nostra ricerca di qualche vera quaglia, pertanto liberai Luna e cominciammo a perlustrare una vasta collina a ridosso della Statale 106, nel Comune di Ferruzzano.

Moschè pur a malincuore seguiva il padrone in un atteggiamento remissivo, anziché di euforia agonistica, non certo contagiato dalla bellezza della cerca della mia cagnetta che si cimentava in accelerate, frenate improvvise su tracce forse fresche, sino a raggiungere l’apoteosi di una ferma al limite di un grosso cespuglio.
 
Invitai l’amico toscano ad avvicinarsi, sperando che Moschè, anche per sola invidia andasse in consenso con la sua collega, ma il maldestro setter andando per la sua strada, calpestò quasi la quaglia che si nascondeva al limite di quel cespuglio e la fece involare all’improvviso. Il mio compagno di caccia, pur preparato al frullo, provò
 
a colpire quella quaglia che era stata forzatamente indotta ad alzarsi, e dopo due colpi in rapida successione, quella capì che l’aveva scampata.

A quel punto capisci che le attenzioni e le gentilezze verso l’ospite vanno messe da parte e lo invitai a tenere Moschè al guinzaglio, così da poter continuare la nostra ricerca, con qualche prospettiva di successo, senza elementi di disturbo.

La mattinata fu una bella passeggiata, costellata di diversi incontri con quaglie che non sfuggirono alla scaltrezza della mia cagnetta, che senza nessun disturbatore, poté dare il meglio di sè, regalando a me delle ferme invidiabili ed al mio ospite la soddisfazione di abbatterne tre.

Moschè quel giorno non trovò nessuna tartaruga da riportare a casa, e sono sicuro che smise di essere chiamato, anche dal suo padrone, “cane da caccia”.

Anche lui è un altro bell’esemplare di Setter, sinonimo di temibile cacciatore, sacrificato sull’altare delle comodità ed alla caccia di tartarughe nelle pinete toscane.
 
Tratto dalla raccolta “A caccia di ricordi” di Carmelo Chirico