UNA CACCIATA ANTICA di Renzo Stella

Nella pianura quella fredda mattina di Dicembre c’era un silenzio non comune. Il Paese era ovattato da una nebbia spessa, da tagliare con il coltello. Era Domenica e le campane della Chiesa, già avevano suonato due, forse tre volte per richiamare i fedeli ritardatari; di lì a poco la Santa Messa sarebbe iniziata. Le donne intabarrate nei loro cappotti scuri e pesanti già uscivano dall’uscio per dirigersi meste verso il sagrato.

Qualcuna a braccetto all’amica forse stava spettegolando di qualcuno, o qualcuna, ma senza troppa malizia. Nel bar della piazza al centro del paese c’erano tre uomini venuti da lontano la sera prima, erano già al secondo o terzo bicchierino di bianco; accalcati vicino alla stufa a legna del bar, guardavano impazienti fuori, attraverso i vetri appannati e nemmeno troppo puliti cercando di capire cosa avrebbe deciso di fare quella maledetta nebbia: dissolversi o perdurare nella sua immobilità che tutto penetra.

Nella Chiesa il prete era già quasi alla predica finale che oggi recitava in maniera stranamente più veloce del solito. Aveva un appuntamento con quegli uomini e non voleva fare tardi, ogni tanto mentre parlava, sbirciava attraverso la spaccatura nel cristallo colorato dell’altare per cercare di capire se la nebbia si stava alzando oppure no. In cuor suo pregava che restasse. Forse le sue preghiere quel giorno non erano troppo vissute sentimentalmente, erano frettolose.

Un uomo di chiesa come Don Franco si sentiva, per questo, ribollire il sangue nelle vene. Ma sarebbe stato perdonato dal buon Dio, ne era sicuro; aveva fretta, e sperava che la nebbia resistesse ancora. Forse lo chiese anche al Creatore, chissà. E finalmente arrivò l’annuncio < Ite missa est- andate in pace, la Messa è finita > E dopo il segno della Croce e l’inchino in ossequi al Cristo, fu velocissimo a scomparire in canonica, dove si spogliò dell’abito del sacerdote per vestire di fustagno; un paio di stivali in gomma nuovi di zecca ed il cappellacio consunto completarono la sua divisa.

Certo qualche comare sarebbe stata contrariata , ma anche loro lo avrebbero certamente perdonato Prese dall’armadio la sua fedele doppietta a cani esterni e la borsa delle cartucce, e dopo aver messo tutto a tracolla si rigirò la sciarpa tre volte intorno al collo, cavalcò la vecchia bicicletta con i freni a bacchetta e corse a perdifiato all’appuntamento. I tre cacciatori lo stavano già aspettando, comodamente seduti dentro la Topolino, parcheggiati a bordo strada prima del ponte sul grande fiume.

Il sacerdote arrivò con il fiatone, davanti alla sua bocca il respiro si condensava spesso come la nebbia che lo circondava. Il freddo era veramente pungente. Salì nell’auto e dopo aver abbracciato il fratello che non vedeva da tanto, troppo tempo, strinse la mano degli altri due con una forza ed un vigore inaspettato anche per lui Gracchiando, il motore della macchina si mise in moto, uno scoppio simile ad una fucilata usci dal tubo di scarico accompagnato da un lampo azzurro.

I quattro si stavano ora dirigendo all’argine della cascina dove si sarebbero imbarcati su due barchine instabili, lunghe e strette, remando a bratto con il lungo bastone in direzione delle botti seminascoste dalle canne. Il Fiume creava un ansa calma, grandissima, prima di morire in mare. Il prete ed il fratello si calarono dentro le botti gemelle site al lato sinistro della palude, solo dopo aver disposto al meglio le stampe e i due germani di richiamo, uno splendido e fiero maschio di germano reale e più lontano una femmina. Gli altri cacciatori al lato destro del lago facevano la stessa operazione. Ora il silenzio era totale.

Solo il canto sgraziato delle anatre da richiamo risuonava sull’acqua come un grido strozzato e ritmico, sempre uguale. I due maschi chiamavano le femmine, e quelle rispondevano a tono. Da una parte all’altra della palude. La mattina era già trascorsa ed il pomeriggio scandiva sulla cipolla da tasca del sacerdote i primi minuti di vita. La nebbia entrava nelle ossa dei quattro, bagnava tutto, il fucile, le cartucce di cartone che rischiavano di gonfiarsi, penetrava attraverso le vesti seppur spesse, persino il pane con formaggio che qualcuno cercava di gustare nonostante il freddo era bagnato e la tensione dell’attesa si faceva veramente sentire.

Il grande fiume scendeva lento verso il mare, portando con se detriti e ricordi; ricordi e anime di quanti sulla sua scia avevano vissuto e lottato contro i suoi capricci, ed erano tanti, tantissimi. Portava al mare i pensieri delle genti che da lui e grazie a lui avevano trovato vita, qualche volta amore. Purtroppo anche la morte. Un fiume pieno di storia, tanta storia, più grande del suo stesso letto. In quel momento per i quattro cacciatori altro non era che un paradiso d’acqua dove gli uccelli velocissimi avrebbero atterrato per cercare cibo, tranquillità, riparo da quel mare d’inverno che stizzito non li voleva come suoi ospiti.

Il primo batter d’ali, fu talmente veloce che non fece intendere ai presenti dove l’uccello si fosse posato, figurarsi capirne la specie. Il mare, con il suo fare da star capricciosa, non accettava quella notte di avere come ospiti tutti quegli uccelli; stava chiedendo a madre natura di scrollarglieli di dosso. Il sole, da par suo e vista l’ora, decise, come aveva sempre fatto, di cominciare la discesa e nascondersi lentamente alla vista degli uomini, dei paesi, persino della nebbia che gli aveva resistito così a lungo.

Le anatre stanche di essere sballottate da quelle onde fastidiose ed irriverenti, si alzarono a gruppetti e come in una danza si diressero velocissime verso quella distesa d’acqua dolce che li avrebbe accolte per la notte. I due richiami facevano sentire forte la loro voce, starnazzando agitate all’approssimarsi dei primi esemplari. Gli uomini, ora non avevano più il fiato nemmeno per parlare. Ammiravano lo spettacolo così da vicino che, accovacciati nel loro umido nascondiglio, avevano la salivazione azzerata dall’emozione.

Avevano già caricato gli schioppi, di loro spuntava solo la sommità del cappello. Prima tre, poi sette, poi qualcuna di più le frecce alate con qualche suono strozzato nel becco cabrando sicure, accartocciando un poco le ali e puntando le zampe palmate in avanti ammaravano con lunghe scie vicino a quelle che credevano compagne già arrivate. Don Franco , guardò negli occhi il fratello Antonio e senza parlare l’intesa fu perfetta. Il silenzio ora si ruppe di tuoni improvvisi, di vampate calde e di pallini che fischiavano rimbalzando sull’acqua.

Alcune anatre non si sarebbero levate mai più in volo, altre centinaia gridando il loro disappunto scomparvero lontane e velocissime nella nebbia che ne copriva in brevissimo tempo la vista. Gli uomini raccolsero le prede, poche, solo qualcuna; raccolsero armi e bagagli. Salirono ancora su quelle barchine malferme e ancora una volta remando a bratto tornarono sulla riva del grande fiume. Il rito della caccia era stato consumato. La natura aveva loro permesso di raccoglierne i frutti. Gli uomini ,così deboli ed indifesi, ancora avevano vinto sulle avversità del tempo; avevano avvicinato per qualche ora i loro cuori, come se a battere fosse uno solo.

Gli sguardi, i sorrisi, le strette di mano contavano nulla dinnanzi alla bellezza del Creato, anche se la nebbia ne faceva vedere ben poco, ma tutti sapevano che erà lì, e per sempre. In quel momento adoravano anche quella nuvola umida che tutto bagnava, tutto nascondeva, che imperterrita continuava a coprire tutto intorno a loro Ora il sole stava quasi scomparendo. Quattro uomini si sedettero in una vecchia macchina che scoppiettando e sputando fumo li avrebbe riportati a casa. Un sputacchio di fiamma bluastra uscì dal tubo di scarico ancora una volta . Sopra di loro uno sbatter d’ali, ed un gracchiare sgraziato. C’erano quattro amici in più.
 
Renzo Stella