Giovedì 24 Novembre 1994, mio sessantesimo anno, anticipo la sveglia; mancano ancora alcuni minuti alle sei. Mi alzo e mi affaccio al balcone: è l’Alba; quante ne ho viste e sempre rimango incantato. Nasce un nuovo giorno.
Nel giardino di fronte, dal cespuglio sento un canto; è lui: il Pittirri, il primo uccello a svegliarsi e a cantare. Puntuale, è una sveglia per gli altri pennuti alati. Il pettirosso che ha scelto di vivere nel giardino di casa mia (Via dei Tigli) a ridosso di un cespuglio di piante grasse e di una vasta edera, viene fuori, non mi teme; anzi curioseggia guardandomi, spostandosi ora a destra ora a sinistra.
E’ un amico molto caro a Dio e all’uomo, da quando la leggenda dice che un piccolo uccello, trovandosi di fronte al Cristo in croce sul Golgota e vedendo la Sua sofferenza aggravata dalla corona di rovi, con le spine conficcate sulla fronte, lui così piccolo si ingegnò ad alleviare un poco la sofferenza del Nostro Padre Eterno – Gesù Cristo- armeggiando con il suo minuscolo becco, riuscì a togliere una spina dalla fronte di Cristo, e nell’operazione il sangue della fronte di Gesù ( che ne uscì) macchiò indelebilmente il petto e la gola dell’uccelletto che da quel giorno si chiamò pettirosso (Pittirri per noi).
Tempo fa un pettirosso si insediò stabilmente nel mo giardino in Messina nei primi giorni di Ottobre e subito ne reclamò il possesso con il suo fiero canto territoriale che non cessò di emettere neppure nei giorni più freddi. Nelle avverse condizioni climatiche si limitava a brevi “canti” modulati nelle ore più calde della giornata. Alle prime luci dell’alba era già in movimento ed esaminava accuratamente il terreno circostante, in cerca di cibo.
La mia presenza sul balcone anziché intimorirlo lo rendeva ancora più spavaldo e curioso: era diventato un inquilino fisso! Lo sento cantare …mi pare? Forse sogno! Quest’alba serena, il compleanno importante…i ricordi di albe sui monti, i boschi che mi mancano, comunque i primi auguri me li fa il Pettirosso, poi la mia Lia mi chiama. Ricomincia la giornata e continua la vita, perché ci sono loro, gli “uccelletti” Massimiliano ed Adriano, ultimo arrivo, c’è la famiglia, il lavoro, il solito tran, tran. Coraggio!
Armando Russo
LA LEGGENDA DEL PETTIROSSO di Armando Russo
UNA CACCIATA ANTICA di Renzo Stella
Nella pianura quella fredda mattina di Dicembre c’era un silenzio non comune. Il Paese era ovattato da una nebbia spessa, da tagliare con il coltello. Era Domenica e le campane della Chiesa, già avevano suonato due, forse tre volte per richiamare i fedeli ritardatari; di lì a poco la Santa Messa sarebbe iniziata. Le donne intabarrate nei loro cappotti scuri e pesanti già uscivano dall’uscio per dirigersi meste verso il sagrato.
Qualcuna a braccetto all’amica forse stava spettegolando di qualcuno, o qualcuna, ma senza troppa malizia. Nel bar della piazza al centro del paese c’erano tre uomini venuti da lontano la sera prima, erano già al secondo o terzo bicchierino di bianco; accalcati vicino alla stufa a legna del bar, guardavano impazienti fuori, attraverso i vetri appannati e nemmeno troppo puliti cercando di capire cosa avrebbe deciso di fare quella maledetta nebbia: dissolversi o perdurare nella sua immobilità che tutto penetra.
Nella Chiesa il prete era già quasi alla predica finale che oggi recitava in maniera stranamente più veloce del solito. Aveva un appuntamento con quegli uomini e non voleva fare tardi, ogni tanto mentre parlava, sbirciava attraverso la spaccatura nel cristallo colorato dell’altare per cercare di capire se la nebbia si stava alzando oppure no. In cuor suo pregava che restasse. Forse le sue preghiere quel giorno non erano troppo vissute sentimentalmente, erano frettolose.
Un uomo di chiesa come Don Franco si sentiva, per questo, ribollire il sangue nelle vene. Ma sarebbe stato perdonato dal buon Dio, ne era sicuro; aveva fretta, e sperava che la nebbia resistesse ancora. Forse lo chiese anche al Creatore, chissà. E finalmente arrivò l’annuncio < Ite missa est- andate in pace, la Messa è finita > E dopo il segno della Croce e l’inchino in ossequi al Cristo, fu velocissimo a scomparire in canonica, dove si spogliò dell’abito del sacerdote per vestire di fustagno; un paio di stivali in gomma nuovi di zecca ed il cappellacio consunto completarono la sua divisa.
Certo qualche comare sarebbe stata contrariata , ma anche loro lo avrebbero certamente perdonato Prese dall’armadio la sua fedele doppietta a cani esterni e la borsa delle cartucce, e dopo aver messo tutto a tracolla si rigirò la sciarpa tre volte intorno al collo, cavalcò la vecchia bicicletta con i freni a bacchetta e corse a perdifiato all’appuntamento. I tre cacciatori lo stavano già aspettando, comodamente seduti dentro la Topolino, parcheggiati a bordo strada prima del ponte sul grande fiume.
Il sacerdote arrivò con il fiatone, davanti alla sua bocca il respiro si condensava spesso come la nebbia che lo circondava. Il freddo era veramente pungente. Salì nell’auto e dopo aver abbracciato il fratello che non vedeva da tanto, troppo tempo, strinse la mano degli altri due con una forza ed un vigore inaspettato anche per lui Gracchiando, il motore della macchina si mise in moto, uno scoppio simile ad una fucilata usci dal tubo di scarico accompagnato da un lampo azzurro.
I quattro si stavano ora dirigendo all’argine della cascina dove si sarebbero imbarcati su due barchine instabili, lunghe e strette, remando a bratto con il lungo bastone in direzione delle botti seminascoste dalle canne. Il Fiume creava un ansa calma, grandissima, prima di morire in mare. Il prete ed il fratello si calarono dentro le botti gemelle site al lato sinistro della palude, solo dopo aver disposto al meglio le stampe e i due germani di richiamo, uno splendido e fiero maschio di germano reale e più lontano una femmina. Gli altri cacciatori al lato destro del lago facevano la stessa operazione. Ora il silenzio era totale.
Solo il canto sgraziato delle anatre da richiamo risuonava sull’acqua come un grido strozzato e ritmico, sempre uguale.
Il grande fiume scendeva lento verso il mare, portando con se detriti e ricordi; ricordi e anime di quanti sulla sua scia avevano vissuto e lottato contro i suoi capricci, ed erano tanti, tantissimi. Portava al mare i pensieri delle genti che da lui e grazie a lui avevano trovato vita, qualche volta amore. Purtroppo anche la morte. Un fiume pieno di storia, tanta storia, più grande del suo stesso letto. In quel momento per i quattro cacciatori altro non era che un paradiso d’acqua dove gli uccelli velocissimi avrebbero atterrato per cercare cibo, tranquillità, riparo da quel mare d’inverno che stizzito non li voleva come suoi ospiti.
Il primo batter d’ali, fu talmente veloce che non fece intendere ai presenti dove l’uccello si fosse posato, figurarsi capirne la specie. Il mare, con il suo fare da star capricciosa, non accettava quella notte di avere come ospiti tutti quegli uccelli; stava chiedendo a madre natura di scrollarglieli di dosso. Il sole, da par suo e vista l’ora, decise, come aveva sempre fatto, di cominciare la discesa e nascondersi lentamente alla vista degli uomini, dei paesi, persino della nebbia che gli aveva resistito così a lungo.
Le anatre stanche di essere sballottate da quelle onde fastidiose ed irriverenti, si alzarono a gruppetti e come in una danza si diressero velocissime verso quella distesa d’acqua dolce che li avrebbe accolte per la notte. I due richiami facevano sentire forte la loro voce, starnazzando agitate all’approssimarsi dei primi esemplari. Gli uomini, ora non avevano più il fiato nemmeno per parlare. Ammiravano lo spettacolo così da vicino che, accovacciati nel loro umido nascondiglio, avevano la salivazione azzerata dall’emozione.
Avevano già caricato gli schioppi, di loro spuntava solo la sommità del cappello. Prima tre, poi sette, poi qualcuna di più le frecce alate con qualche suono strozzato nel becco cabrando sicure, accartocciando un poco le ali e puntando le zampe palmate in avanti ammaravano con lunghe scie vicino a quelle che credevano compagne già arrivate. Don Franco , guardò negli occhi il fratello Antonio e senza parlare l’intesa fu perfetta. Il silenzio ora si ruppe di tuoni improvvisi, di vampate calde e di pallini che fischiavano rimbalzando sull’acqua.
Alcune anatre non si sarebbero levate mai più in volo, altre centinaia gridando il loro disappunto scomparvero lontane e velocissime nella nebbia che ne copriva in brevissimo tempo la vista. Gli uomini raccolsero le prede, poche, solo qualcuna; raccolsero armi e bagagli. Salirono ancora su quelle barchine malferme e ancora una volta remando a bratto tornarono sulla riva del grande fiume. Il rito della caccia era stato consumato. La natura aveva loro permesso di raccoglierne i frutti. Gli uomini ,così deboli ed indifesi, ancora avevano vinto sulle avversità del tempo; avevano avvicinato per qualche ora i loro cuori, come se a battere fosse uno solo.
Gli sguardi, i sorrisi, le strette di mano contavano nulla dinnanzi alla bellezza del Creato, anche se la nebbia ne faceva vedere ben poco, ma tutti sapevano che erà lì, e per sempre. In quel momento adoravano anche quella nuvola umida che tutto bagnava, tutto nascondeva, che imperterrita continuava a coprire tutto intorno a loro Ora il sole stava quasi scomparendo. Quattro uomini si sedettero in una vecchia macchina che scoppiettando e sputando fumo li avrebbe riportati a casa. Un sputacchio di fiamma bluastra uscì dal tubo di scarico ancora una volta . Sopra di loro uno sbatter d’ali, ed un gracchiare sgraziato. C’erano quattro amici in più.
Renzo Stella
CORIGLIANO
Nella seconda metà degli anni ’60 Corigliano (Stazione) era il posto tradizionale per cacciare i tordi nel mese di febbraio, quando si radunavano prima della partenza per i luoghi di nidificazione. Varie macchine partono da Fasano per tempo con la solita comitiva: zio Franco, Feluccio, Vito (Vetucc a bott), Sebastiano, Bebè, Paolo. Tradizionale fermata al Bar di Trebisacce per prendere il caffè o il cappuccino.
Era sempre una festa per il Bar ma anche per noi che prima della cacciata facevamo le previsioni: faremo un buon carniere, ci saranno molti tordi? Dopo questa sosta via per Corigliano dove si arrivava sempre in anticipo. Distese di uliveti inframezzati da agrumeti con a terra una vegetazione piuttosto folta; e infatti qualche volta capitava di sparare anche la beccaccia.
Al limitare di una piantagione ci troviamo affiancati Paolo ed io. I tordi ci sono ed il divertimento è assicurato. Tuttavia se un tordo cade nell’aranceto non è facile trovarlo. Quelli feriti poi è inutile andare a cercarli. Facciamo dei buoni tiri entrambi anche perchè la competizione è sempre presente e Paolo è un ottimo tiratore. Sul tardi però i tordi cominciano ad andarsene feriti almeno con le mie cartucce ed anche Paolo fa fatica.
Ad un certo punto me ne cadono due feriti che allungano e sono irrecuperabili. Un pò di imprecazioni e continuo a sparare. Improvvisamente anche Paolo spara un tordo a tiro che invece di cadere stracciato allunga anche lui; ma il tordo, dopo aver fatto un lungo giro, viene fuori dall’agrumeto e va a cadere proprio ai piedi di Paolo. Allora dal cuore gli grido: “Paolo ma sei proprio un c… rotto!”. E tutti e due ci facciamo una gran risata.
Riccardo Turi
CARTUCCE DA CACCIA: MODALITA’ DA SEGUIRE PER RAGGIUNGERE LE MIGLIORI PRESTAZIONI (1° Parte) dell´Ing Claudio Leonetti
Questo quarto articolo è estrapolato da “LE CARTUCCE DA CACCIA”, materiale di balistica venatoria prodotto e gentilmente messoci a disposizione dall’Ing Claudio Leonetti.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, risulta piuttosto lungo. Pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti:
– cosa sono le cartucce da caccia (1° e 2° parte);
– quali sono i limiti di impiego dei fucili e delle cartucce da caccia (1° e 2° parte);
– quali sono le modalità da seguire per poter raggiungere le migliori prestazioni (1° e 2° parte).
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Balistica Venatoria”, che ciascuno potrà stampare e tenere per consultarlo in qualsivoglia occasione.
CARTUCCE DA CACCIA: MODALITA’ DA SEGUIRE PER RAGGIUNGERE LE MIGLIORI PRESTAZIONI (1° Parte)
Tenuto presente quanto finora è stato appena sfiorato nel vasto campo della “balistica cinegetica” potremmo dire che, volendo proprio caricare cartucce (veramente buone) occorre lapalissianamente decidere a quale tipo di caccia esse saranno destinate. Se debbono essere cartucce “omnibus” è ovvio che possiederanno tutti i vantaggi ed i limiti di tutti i compromessi.
Per secondo dobbiamo poi conoscere con quale fucile spareremo le stesse cartucce, e qui torna utile ricordare l’influenza della strozzatura sulle rosate. Sparando ottime cartucce con canna a strozzatura differente, potremo colpire il bersaglio, posto alle più varie distanze, con un numero di pallini assai variabile a seconda del grado di strozzatura della canna usata.
Risulta per es. che, sparando con una canna cilindrica, si riesce a collocare su un bersaglio (cerchio di 70 cm. di diametro) posto a 35 metri, appena il 43 % dei pallini del n.7 contenuti nella cartuccia, mentre, impiegando una canna strozzata (full) se ne possono piazzare ben l’80%; tenendo ben presente le caratteristiche del nostro fucile (e non soltanto la strozzatura ma anche il peso, legato a doppio filo con la sensazione del rinculo) potremo determinare numero e dosi di piombo più adatti.
Per quanto riguarda il fucile, abbiamo solo accennato all’influenza della strozzatura (e del peso), ma sono anche balisticamente importanti, sia pure in misura diversa, il diametro e la lunghezza della camera; la forma e la dimensione del raccordo tra camera ed anima della canna, etc… R
icordiamo, per finire, che molti vogliono riconoscere a ciascun fucile un suo proprio “temperamento”, e se ciò vuol dire una combinazione dei parametri che abbiamo elencato e di altri, il termine, che suona alquanto strano per un’arma, sembra davvero giustificato.
Ritornando alle nostre cartucce, dovremmo scegliere la polvere. Ricordando che con le cariche forti di piombo meglio si addicono le polveri progressive e, viceversa, le polveri vivaci sono più adatte per le cartucce leggere, potremo già operare una prima scelta (lasciando volutamente da parte il fattore economico).
Potremo poi tener presente che una buona polvere non deve erogare pressioni troppo elevate; deve accendersi bene con il tipo di innesco prescelto; possibilmente non deve essere erosiva o corrosiva per le armi (il danno è limitato con le armi moderne dotate di canne anticorro e provvediamo sempre ad una rigorosa pulizia del fucile dopo l’uso); deve fornire con le cariche medie, raccomandate dai Fabbricanti, buona velocità iniziale; deve avere un rapporto pressione/velocità tale da garantire buone rosate (l’esperienza ha accertato che tanto più questo rapporto si avvicina a uno tanto migliori sono le rosate che si ottengono); deve essere caricata volumetricamente senza inconvenienti; deve essere regolare e costante il più possibile, anche col variare degli agenti atmosferici.
Dato che tutto ciò non può pretendersi da una sola polvere è bene prescegliere una/due marche e “farvi la mano”, nel senso che conviene caricare cartucce con quelle stesse polveri in diverse condizioni, in modo da cercare di avvicinarsi il più possibile a quelle prestazioni che avevamo prestabilito. Crediamo che non sia proprio razionale portarsi dietro un “campionario” di cartucce caricate con 4 – 5 e più polveri diverse.
Seguendo il principio sopra esposto potremo scegliere una polvere a doppia base per le stagioni umide e fredde ed una polvere alla nitrocellulosa completamente gelatinizzata, meno calda e perciò suscettibile di dare alte pressioni, e nello stesso tempo sufficientemente insensibile alle variazioni atmosferiche, da riservare alle cacce estive-autunnali.
Tenete presente che, per un fucile cal. 12 di medio peso ( 3 kg circa ) è bene regolare la carica di polvere su di una dose media di 32 grammi di pallini, aggiungendo 1-2 gr nel caso di pallini grossi (dal n. 7 e oltre ), e togliere 1-2 gr nel caso di pallini fini. (Esiste una nota regoletta: il peso del piombo non deve superare 1/100 del peso del fucile, pena uno sgradevole senso di rinculo nel caso che si raggiungano velocità sufficientemente elevate).
Non disponendo di un Banco di Tiro, il cacciatore può sapere se la sua carica è equilibrata quando, avendo adottato la dose di polvere raccomandata dal Produttore, otterrà delle rosate uniformemente distribuite. Per rilevare ciò non dovrà limitarsi a sparare sul tradizionale sasso o, peggio ancora, sul labile specchio di uno stagno, ma dovrà centrare le sue fucilate su fogli di carta di almeno un metro di lato, ben stesi a 35 metri dalla bocca dell’arma.
Volendo far le cose per bene, dopo aver bucato con le nostre rosate i fogli di carta, si tracciano su di essi i tradizionali centri concentrici, prendendo come centro quello medio della rosata, che si impara ad apprezzare presto con un po’ di pratica.
Φ cerchio esterno = 75 cm
Φ cerchio interno = 37,5 cm
m = 1 ÷ 4 (pallini nel cerchio interno)
n = 1 ÷ 8 (pallini nel cerchio esterno)
N = pallini contenuti nella cartuccia n
n-m = pallini piazzati fra i due cerchi
Contando i fori prodotti dai pallini (notare se vi è stata formazione di “grappoli”, indice di fughe di gas) si può, per prima cosa, determinare la densità di rosata:
A% A% = n/N x 100
La densità di rosata di una buona cartuccia non deve discostarsi molto dal 65% quando si spara piombo del n. 7. Tenere presente che se il diametro dei pallini diminuisce, la loro dispersione aumenta; passando, per es. , dal pallino n. 7 al pallino n. 12, si è trovato sperimentalmente che la densità di rosata diminuisce di circa il 20% (dal 65% passa al 52% circa).
Partendo dagli stessi fogli di rosata si può calcolare il “coefficiente di infittimento” o “indice di concentrazione”. Chiamando con m il numero dei pallini nel cerchio interno (1÷4) , il rapporto n/m ci dà una idea dell’infittimento; infatti più sarà basso il quoziente tanto più concentrata sarà la rosata e viceversa. Tenuta ferma la strozzatura usata per i diversi tiri, effettuati con uguali cartucce, si può quindi rilevare quale sia la cartuccia più adatta per il tiro o per la caccia, a seconda del grado minore o maggiore di infittimento.
Viceversa sparando le stesse cartucce con strozzature diverse, si potrà controllare, nel caso della canna cilindrica, se i pallini sono, come devono essere, distribuiti con confrontabile uniformità sia nel cerchio interno che nello stesso spazio tra i due cerchi; mentre, nel caso delle canne strozzate, il cerchio interno dovrà risultare assai più guarnito, e lo spazio tra i due cerchi potrà presentare una non perfetta distribuzione dei pallini.
Allo scopo di studiare meglio i risultati, i cerchi possono essere successivamente suddivisi in 8, 16 e più zone, ciascuna delle quali dovrà contenere un numero minimo di pallini.
Ing Claudio Leonetti
Nel prossimo articolo: Cartucce da Caccia: modalità da seguire per raggiungere le migliori prestazioni (2°Parte)
STORIA DELLE QUAGLIE DI PRIMAVERA di Armando Russo
A Primavera, quando ogni erba e pianta fiorisce e tutt’intorno è profumo, nei nostri campi si sente un canto diverso: sono le quaglie maschio che sono arrivate dall’Africa traversando il Mediterraneo.
Questo piccolo uccello ha una storia biblica: il popolo ebreo in fuga dall’Egitto sotto la guida di Mosè, nella penisola del Sinai, fu salvato dalla fame da un provvidenziale arrivo di Quaglie. Lo dice la Bibbia nell’Esodo. E’ la prima notizia protostorica del prelievo continuativo che l’uomo ha esercitato sulle popolazioni di quest’uccello dall’antichità a quarant’anni or sono. Indistintamente tutte le genti incluse nella sua area distributiva ne catturarono con ogni mezzo più o meno lecito, attingendo alla sua abbondanza. Le carni tenere e delicate tentarono ovunque i buongustai.
La caccia alla quaglia in primavera, quando ammessa, è stata la preferita dai nostri antenati. Nell’ultimo dopoguerra del ’43-44 a Messina il prelievo di quaglie e la sua caccia autorizzata dagli americani consentì a tante famiglie di portare a tavola qualcosa di diverso e nutriente in un’epoca di grandi ristrettezze anche alimentari. Chi può dimenticare la pietanza famosa “quaglie e piselli”.
Nonostante la falcidia di millenni la specie mantenne inalterata i propri effettivi, rimpiazzando le perdite con una fecondità straordinaria. Bastarono quarant’anni di “progresso” nei metodi di coltivazioni agricole per colpire ovunque la specie. Non casualmente le curve statistiche della sua contrazione e quelle delle moderne tecniche agricole con il loro incedere dall’Ovest all’Est europeo sono parallele. Dapprima la specie fu agevolata dall’estendersi delle coltivazioni, poi fu minorata quando la meccanizzazione e l’impiego a vario uso di sostanze chimiche ebbero il sopravvento.
Il processi riduttivo si è arrestato e la specie riprende. Le quaglie tornano a cantare nei prati. La Quaglia (peso gr 80/150) è l’unico galliforme migratore del nostro continente. Nella levata il corpo raccolto, tondeggiante, la coda cortissima, le brevi ali curve ci danno l’impressione di un volo faticoso. E’ sbagliato. In realtà l’uccello è perfettamente organizzato per i lunghi trasferimenti notturni. Si dice che attraversa il mare volando con una sola ala riposando l’altra a turno.
Ad Aprile e Maggio le Quaglie arrivano nelle contrade messinesi costiere da Tremestieri a Ortoliuzzo, precedute dai maschi. Essi si stanziano nei luoghi confacenti in attesa del transito delle femmine e con il canto le attirano a terra. Essi sono esseri focosi, poligami, tanto da essere stati presi a simbolo della lussuria dalle genti di religione maomettana. La prolificità della specie è eccezionale: da 12 a 18 uova il numero massimo, normalmente da 8 a 12.
Nella provincia di Messina, un tempo ricchissima di Quaglie, la sua presenza è condizionata dalla forza e direzione dei venti (scirocco e libeccio) al momento del transito primaverile. Oggi la quaglia viene allevata con grandi risultati tanto è che è diventata merce acquistabile a modesto prezzo ovunque per usi alimentari, ornamentali e cinofili. La Quaglia preferibilmente sosta in pianura. Con la sua copertura erbacea o cespugliosa nella quale si sa destreggiare a meraviglia essa rappresenta l’ambiente elettivo.
Non c’è limite tuttavia a dove si possa trovare tra l’erba la Quaglia, purché al zona abbia un buon grado di umidità, non sia pietrosa o boscosa. Pertanto le stanno bene anche prati e pascoli naturali pianeggianti, coltivi di piselli e fave. La Quaglia è il selvatico che esalta le doti del cane da ferma specie gli inglese come i Setter e i Pointer. Le tinte di entrambi i sessi sono mimetiche, fulvo giallastre striate di bianco fulvo nero. Il maschio si distingue per una striscietta nera dal becco alla gola ed il petto color ruggine limonato. I pulcini, naturalmente nidifughi, hanno un alto tasso di crescita.
Sono già in grado di effettuare tramuti dettati dal clima a mezza estate. Dal 20 Agosto iniziano le prime partenze per l’Africa se rinfresca un po’, lasciando il cacciatore con un palmo di naso. Molte sono le leggende legate alle Quaglie. Citiamo, come a Faro Superiore, in occasione della Festività di San Filippo D’Agira, si festeggia la “Sacra delle Quaglie” con la liberazione di 1000-2000 Quaglie precedentemente catturate o allevate, quale segno di ringraziamento al Santo per i raccolti d’annata.
Armando Russo
GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: IL CANE (1° Parte) di Angelo Di Maggio
Questo articolo è estrapolato da “Gare col Cane da ferma e Spaniels”, testo prodotto e gentilmente messoci a disposizione dal Sig Di Maggio Angelo, Giudice Cinofilo e grande appassionato di caccia; egli, grazie all’esperienza acquista sul campo quale giudice della Libera Caccia, ha giudicato e giudica in gare organizzate da qualsiasi “associazione venatoria” che da questa sia chiamato a farlo.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, è della lunghezza complessiva di circa settanta pagine; pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, cercando di mantenere continuità di contenuti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti gli operatori del settore, aspiranti giudici, delegati cinofili o semplicemente appassionati del magnifico mondo delle gare cinofile.
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Cinofilia”, che ciascuno potrà stampare e tenere come manuale completo ed esaustivo, da consultare in qualsivoglia occasione.
IL CANE (1° Parte)
Una precisazione inerente al cane è da fare subito: in qualsiasi gara con Regolamento Sant´Uberto possono partecipare tutti i cani delle razze da ferma indistintamente, inglesi e continentali, ma anche gli “spaniels”. Tutti ovviamente partono alla pari, perchè è sul terreno che si valutano il “tipo” di movimento, le qualità naturali e quant´altro, a qualsiasi razza appartengano.
Cosa deve saper fare un cane in gara…
– innanzi tutto deve saper camminare tranquillo al guinzaglio, di lato al conduttore o appena più avanti;
– deve aver imparato il “terra“, quantomeno per star fermo al piede del conduttore prima di iniziare il turno;
– sciolto bene a vento, non deve partire in profondità (cioè avanti al conduttore), ma sviluppare l´andatura richiesta in adeguata velocità e sempre ai lati del conduttore, spingendosi il più possibile vicino al bordo del campo in un senso e ritornando nella direzione opposta, verso il bordo opposto, come a formare una “zeta” (percorso) e sempre in modo tale che abbia costantemente il vento nel naso. Solo così può effettuare una buona “cerca” con risultati apprezzabili. Solo eccezionalmente (una o due volte al massimo) può passare dietro al conduttore perchè, se la cosa si ripete spesso, denota “carenza di cerca”;
– deve sì pensare a cercare, ma deve pensare anche al conduttore e con questi rimanere sempre “collegato”, per eseguirne gli eventuali ordini che gli indichino o modifichino la cerca stessa.
– della ferma non ne parlo più di tanto, perchè presumo non debba mancare; dico solo che deve essere “solida”, “sicura” e “rigida”. Vedremo poi il significato di questi e di altri termini, tutti riferiti alla ferma. Per gli “spaniels“, oltre che all´ottimo collegamento, non essendo fermatori, al frullo del selvatico é richiesta la correttezza e la posizione “seduta”. Ciò solo nelle gare ufficiali.
– il riporto é obbligatorio tanto in gara quanto a caccia. Il cane che non riporta non serve nemmeno a caccia, sempre che il padrone non voglia sostituirsi a lui e non sempre gli sarà possibile (fossi, laghi, dirupi e quant´altro). Il “dente duro” nel riporto (cioè mastica e danneggia il selvatico) viene come tale penalizzato. Altrettanto dicasi per l´eventuale “canizza” (cioè il continuo abbaiare durante la cerca, senza alcun motivo).
Le cose, come si può notare, non sono molte; basta che siano fatte più o meno bene. Da quel più o meno del concorrente ed il più o meno del cane, viene fuori il “giudizio” da cui scaturirà un punteggio che, sommato a quello per l´abbattimento dei selvatici, darà quello complessivo e da esso la conseguente “classifica”.
Qui di seguito farò ancora ricorso alle valutazioni che si esprimono nelle gare con Regolamento Sant´Uberto, per poi fare il raffronto con nostro Regolamento.
Si noterà che nessun cenno ho fatto alle “correzioni” perché quel cane “non corretto” che ha svolto una buona cerca, ferma e riporto di tutti i selvatici che potevano essere abbattuti nel turno, andrà quasi certamente in classifica (se anche il conduttore ha riscosso un buon giudizio). Però, sarebbe una fortuna se il cane “non corretto” trovasse i soli selvatici abbattibili (ed il conduttore preciso nell´abbattimento).
Il problema sorge proprio nel caso in cui ne trovasse un altro che, come detto, non si potrà abbattere (oppure in occasione di errore del conduttore nello sparo). Se fino a questo punto il cane aveva svolto un buon turno, degno di un buon giudizio, ora è il conduttore che si gioca il posto in classifica oppure, bene che vadano le cose, ne prenderà uno degli ultimi. Il cane non corretto rincorrerà certamente, come d´altra parte l´istinto gli ha insegnato e certamente si ostinerà ad inseguire, sordo ai richiami.
Il Regolamento Sant´Uberto, infatti, non prevede la rincorsa del selvatico come demerito per il cane ma é demerito la non ubbidienza; ed in effetti io non ho fatto alcun cenno fino a che si trattava dei selvatici che si potevano abbattere (o non sbagliati).
Prevede, però il merito per il cane corretto, e come tale valutato.
E allora, a parità di prestazione e di giudizio sui turni di due o più cani, chi si deve privilegiare? La risposta mi sembra talmente ovvia che la ometto.
E se il cane corretto risolve bene su due selvatici, mentre quello non corretto risolve altrettanto bene su tre?
Confermando la parità di prestazione e di giudizio, rispondo ancora: quello corretto!. Perché? Perchè quest´ultimo ha dimostrato, oltre alla buona prestazione, anche la “capacità di apprendere” gl´insegnamenti dell´uomo; il ché non è da tutti i cani. Non tutti infatti accettano il “dressaggio“. Molti, in questa fase, palesano una “carenza” di carattere che prima poteva essere meno evidente ed ora può manifestarsi in vari modi, quali:
– il ritrarsi dopo il frullo per paura dello sparo (ciò, non solo per carenza di carattere, ma anche per qualcos´altro che hanno avuto nel posteriore; gli esperti sanno a cosa mi riferisco);
– il rifiutare (eludere) la selvaggina sulla quale sono stati addestrati (analogo motivo).
Di contro, il cane “non corretto” ha realizzato bene su due selvatici, rincorre sì, ma al richiamo rientra subito per riprendere la cerca, mostrando fondo e buone qualità naturali, mentre il cane “corretto” ha realizzato bene su tre selvatici ma con una cerca ristretta, non avida, disordinata; perchè non premiare il primo?
Ed è quello che generalmente accade, perchè le qualità naturali di un soggetto sono gli elementi essenziali che un giudice guarda per primi.
Per qualità naturali si intendono: carattere, olfatto, velocità, avidità, cerca, fondo, continuità, collegamento, stile, riporto e quant´altro.
Se qualcuna di tali qualità manca del tutto o in parte in un cane c´è “carenza”, ma se eccede in qualcuna sicuramente cadrà in qualche “errore”. Vero è che le gare sono la riproduzione della caccia e che essa è sinonimo di carniere, ma in gara si giudica “come” quel carniere sia stato realizzato. In quel “come” sta principalmente il comportamento del concorrente, ma anche il modo in cui il cane ha effettuato il suo lavoro.
Alla finale di un Campionato Italiano ANLC, vinse una batteria un concorrente che aveva effettuato il miglior turno di quella batteria ed il cane aveva risolto positivamente su quattro ferme. L´attestazione di “cane migliore dell´anno” fu assegnata però ad un cane che aveva realizzato due ferme positive, ma nel suo lavoro aveva evidenziato qualità naturali superiori a tutti gli altri cani in gara.
Nelle gare il carniere non è tutto anzi, è molto meno di tutto. In verità posso affermare che ciò è difficile farlo capire anche a molti degli stessi “garisti”, specialmente se sono abituati a “protezioni”. Ma il Regolamento è chiaro e ad esso non si dovrebbe transigere. Per quanto concerne il Campionato Italiano del Sant´Uberto, è obbligatorio che il cane sia corretto al frullo ed allo sparo ed il concorrente sia in possesso del Cartellino Agonistico rilasciato nell´anno.
Alcune domande vengono spontanee:
1. Vi è una differenza olfattiva tra diverse razze di cani? Rispondo di no, perché la differenza sta solo nel modo diverso di percepire l’emanazione. Abbiamo infatti cani a natura calma e riflessiva (i trottatori) che vanno a testa alta e percepiscono l’emanazione dal basso verso l’alto; altri a temperamento nervoso ed impulsivo (i galoppatori) che vanno col “bilanciere” testa-collo portato al livello del tronco e percepiscono l’emanazione frontalmente.
2. Quando un cane viene considerato “in mano” e quando “fuori mano”?
A qualunque distanza esso si trovi ed al richiamo risponde immediatamente, è considerato “in mano”; se non ubbidisce è considerato “fuori mano” e ciò anche a pochi passi di distanza dal conduttore.
3. Se il cane in ferma sente rumori o altri spari, può lasciare la ferma?
Mai! Il cane in ferma ha l’obbligo di restarci finché il selvatico regge. Se lascia vuol dire che rompe la ferma e pertanto è da penalizzare. L’esempio che ho fatto prima (sfrullo del concorrente mentre il cane è in ferma su altro selvatico) n’è la dimostrazione.
4. Dopo aver fermato, può il cane “girare” il selvatico? Se lo fa è a suo rischio e pericolo perché, se fa volare mentre compie tale azione viene penalizzato. In tale circostanza, nelle prove ENCI e nelle nostre “qualitative” viene eliminato.
5. Dalla ferma del cane si alza un selvatico, appena il cane riparte se ne alza un altro, è errore del cane o è da considerarsi valido il primo punto? E’ errore del cane perché deve rimanere ancora in ferma. Analogamente deve rimanere in ferma fino all’involo dell’ultimo selvatico se trattasi di “brigata”.
Quali le differenze col nostro Regolamento in gare ufficiali? Nessuna per ciò che concerne la valutazione del movimento, della cerca, della ferma, delle qualità naturali e dell´ubbidienza del cane. Una sostanziale è quella derivante dal fatto che il turno ha termine all´esaurirsi delle cartucce disponibili cioè, come detto, anche dopo pochi minuti. A mio parere, per questo punto si potrebbe cambiare qualcosa nel Regolamento, perchè ritengo non si valuti appieno il “fondo” del cane, cioè il mantenimento costante dell´andatura fino al termine del turno, e la sua ubbidienza.
Nel nostro Campionato Italiano “Diana” non è previsto alcun obbligo né per il cane né per il concorrente, ma certamente non si può dire che non sia particolarmente apprezzato il cane “corretto”, sempre che dimostri anche le qualità naturali e le tipicità peculiari (movimento e ferma) della razza di appartenenza.
Altra è quella che prevede l´eliminazione del concorrente qualora la prestazione del cane non risulti conforme al tipo di gara.
Per ultimo è da dire che in nessuna nostra gara ufficiale (Diana) era prevista la partecipazione degli “spaniels”, ma dal 2000 anche questi cani hanno la loro batteria nel nostro Campionato.
Giudice di Gara Angelo Di Maggio
La prossima settimana seguirà: “Gare col Cane da ferma e Spaniels: il cane” (2° Parte)
UN INCONTRO FORTUNATO
Novembre 2007, con il mio amico Giammario (Beghelli) decidiamo di andare a caccia nella piana di Viglione, al confine tra le provincie di Bari e Taranto. Purtroppo tordi ce ne sono pochi e, piuttosto che ammazzare 2 o 3 tordi è meglio perdere un po’ di tempo a caccia di pavoncelle e di qualche beccaccino. Arriviamo sul posto ancora a buio e ci dirigiamo al posto che avevamo individuato la domenica precedente.
Io mi carico sulle spalle il sacco degli stampi ed i due fucili (due Benelli cal.12). Giammario si carica il capanno, le mazze e lo zaino con varie cose tra cui anche qualche vettovaglia. Dopo aver arrancato come muli per circa 300 metri siamo arrivati. Lui sistema il capanno mentre io piazzo circa 30 stampi di pavoncella. E’ una brutta giornata con un forte vento da sud ovest e grosse nuvole. Vicino a noi abbiamo un laghetto che serve per irrigare, individuato nella campagna senza alberi da due eucalipti. Giù nella piana scorre il canale ad una distanza di 300/400 metri.
Vediamo qualche stuolo di pavoncelle in distanza ma del fischio non ne vogliono sapere. Dopo un’oretta comincia a piovere ed abbassiamo i cappucci per non bagnarci la testa. Cielo vuoto di cacciagione e piovoso: è una vera punizione. Improvvisamente noto in distanza 3 germani che girano sul canale in un posto, che conosciamo, dove l’acqua è calma anche perchè è riparato dagli alberi. I 3 germani girano 3 volte ed alla fine scendono nel canale. Siamo parecchio distanti ma nonostante lo scetticismo di Beghelli decido di tentare l’accosto.
Usciamo dall’appostamento e ci dirigiamo verso il punto dove si sono calati. Dopo una cinquantina di metri si alza quasi da sotto i piedi una quaglia che padello regolarmente con un colpo. Maledizione! Chissà se i germani si sono alzati: non avrei dovuto sparare. Continuiamo l’avanzata procedendo contro vento con la certezza che se sono ancora lì non potranno sentirci. Dopo un’accostata che ci sembra interminabile siamo quasi a ridosso del canale nel punto dove li avevo visti calare. Faccio rumore per farli alzare per ben tre volte: niente!
Penso che saranno volati via e che noi non li abbiamo visti. Mentre ormai avviliti ci avviciniamo e siamo quasi sopra il canale ecco che improvvisamente si alzano con un fragore incredibile tra i rami degli alberi. Partono le fucilate e distintamente uno viene già a straccio, mentre il secondo cade per opera dello Spirito Santo nonostante le fucilate di Giammario. Al terzo sparo il colpo rimastomi ma senza esito. Andiamo subito a raccogliere le prede ma, mentre quello sparato da Giammario e ben visibile e vivo, quello da me stracciato al primo colpo non si trova.
Dopo aver inutilmente cercato non c’è altra spiegazione che quella che il germano è caduto vivo e si è nascosto sott’acqua sotto le canne che abbondano. Nel canale non si può entrare perchè l’aqcua è alta e quindi, dopo aver guardato per altri 10 minuti, sconsolati ce ne torniamo all’appostamento. Peccato! Siamo stati fortunati ma nello stesso tempo sfortunati perchè invece di 3 germani ne abbiamo preso solo uno. Immortaliamo comunque l’avvenimento con una bella fotografia:la prossima volta andrà meglio.
Riccardo Turi
JAGDTERRIER
Teutonico, vulcanico, predatore per vocazione …andiamo a conoscere il Terrier più Terrier che ci sia…
Per visualizzarne la scheda clicca quì.
“DUE NOTE, SI DONDOLANO…
Avevo in testa questa canzone di Mina che ricollegavo ad una delle mie prime uscite a caccia con il fucile, il famoso cal.28 monocanna Beretta. E finAlmente ho potuto collocare temporalmente con esattezza quelle meravigliose sensazioni: autunno 1959! Ascoltavo Mina il sabato sera in televisione a casa mia che sembrava un cinema; almeno 4 file di sedie e noi ragazzi in prima fila seduti per terra.
Ascoltavo e pensavo all’indomani, alla levata alle 5 (o prima), al caffellatte al Bar con zio Franco, Raffaele, Feluccio e gli altri. Ero l’unico ragazzino che aveva un fucile e se ne vedevo qualche altro era soltanto un accompagnatore. In particolar modo ricordo una mattina ancora a buio che arrivammo con la macchina davanti ad una masseria poco lontano da Fasano. La costruzione era sopraelevata rispetto all’uliveto e dal cortile dove avevamo fermato la macchina si dominava tutta la piantagione.
Lo scarico di fucili e cartucce dalla macchina ed io che scendo tre scalini di pietra e mi dirigo nell’uliveto mentre due ombre mi passano accanto (forse tordi) ma non riesco a sparargli. Non ricordo il carniere ma l’atmosfera meravigliosa che mi donava il solo pensiero di andare a caccia collegata con quella meravigliosa canzone di Mina.
Il giorno dopo a scuola raccontavo tutto ai miei compagni che però non potevano comprendere, non potevano capire, non potevano afferrare – non essendo cacciatori – l’ineffabile piacere che donava la caccia. Non mi interessavano i giochi che facevano i ragazzi, le figurine, le biglie colorate, i tappi di bottiglie, anche se qualche volta ci giocavo anch’io. Ma l’essere cacciatore mi faceva dominare gli altri, mi metteva alla pari con gli adulti, mi rendeva felice il solo pensiero, anche le ore che passavo a guardare zio Franco che caricava le cartucce ,il profumo della polvere da sparo (JK6), dei bossoli, del piombo.
Guardo i giovani di oggi e li compiango perchè pochi o pochissimi hanno avuto il dono del sacro fuoco. Spero solo di poter andare a caccia fino all’ultimo, magari anche con uno sgabello per sedermi quando non riuscirò più a stare in piedi.
Riccardo Turi
MARULA LODGE SAFARIS
Nel cuore del Continente Nero, Gerard Fourie offre ai cacciatori l´esperienza e l´affidabile organizzazione del suo Marula Lodge Safaris per la grande caccia africana, dalla selvaggina minuta ai mitici Big Five.
Il Marula Lodge Safaris è sorto nel 1990, da un piccolo ranch di caccia nel Sud Africa settentrionale. L’idea del suo fondatore, Gerard Fourie, era quella di creare un’azienda venatoria e turistica che offrisse qualità ed esperienza al vero cacciatore, intenzionato a cimentarsi per la prima volta con la nostra selvaggina minuta o con i Big Five, tramite un’agenzia. Egli aveva già in mente il motto più importante “arrivare come un cliente e partirsene come un amico”.
L’azienda ha, ad oggi, ampliato la propria attività in Tanzania, Zambia, Botswana e Namibia, disponendo delle migliori aree da trofei che questi Paesi offrono. Il cuore del Lodge Marula è situato ancora nello stesso ranch originario, nella valle del fiume Limpopo, nella provincia omonima. Esso può ospitare fino a 12 cacciatori in camere con bagni interni, presenta una piscina ben attrezzata e ha a disposizione tutti i mezzi di locomozione per assicurare battute di caccia di successo. Gerard è il proprietario e l’organizzatore di questa attività da ben 18 anni, quindi in grado di offrire un’esperienza unica a chiunque sia in cerca di entusiasmanti avventure.
Il tipo di caccia che viene offerta è con la carabina e con l’arco. Il Marula Lodge Safaris basa l’organizzazione della propria attività sul contatto diretto col cliente; questo modo, più lento nei tempi, ma più sicuro, ha accresciuto negli anni l’efficienza di questa azienda. Alcuni componenti dello Staff lavorano con noi dalla fondazione dell’azienda e speriamo vivamente che continuino a farlo per molti anni ancora. La nostra specialità è offrire ai cacciatori che vengono per la prima volta in Sud africa un’esperienza affascinante al giusto prezzo e accompagnarli nell’entusiasmante mondo della caccia nel Continente Nero, con le sue pericolose belve.
Noi garantiamo di sopperire efficacemente alla mancanza d’esperienza del cliente perché ben sappiamo che la vita del cacciatore è nelle mani del Professional Hunter quando si cacciano i Big Five. I molti, soddisfatti clienti che hanno cacciato i Big Five con noi possono testimoniare la sicurezza e l’attenta organizzazione con cui noi stabiliamo per loro posizioni per l’abbattimento degli animali, per quanto lo permettano fattori contingenti e di etica venatoria. Gerard è anche un Game Rancher, preparato quindi nella conoscenza dei comportamenti e degli istinti di tutti gli animali.
L’azienda è cresciuta enormemente negli ultimi anni e lui è uno dei pionieri dell’attività. Il Sud Africa offre una quantità enorme di selvaggina cacciabile, grazie allo sforzo concertato dalle varie aziende venatorie per conservare ed utilizzare la fauna selvatica. Questo fatto, da solo, è stato la causa del forte del numero di animali e specie in Sud Africa. Oggi questo Paese ospita più cacciatori che mai rispetto al passato e possiede le infrastrutture adatte per un ulteriore sviluppo dell’attività venatoria.
Il Marula Lodge Safaris offre ai propri clienti:
– Safari di caccia in tutta l’Africa, dalla piccola selvaggina ai Big Five;
– Tour fotografici in tutto il Sud Africa, in particolare nel Kruger Park, nelle aree circostanti e a Città del Capo;
– Sviluppo di proprietà: chiunque voglia acquistare un terreno e svilupparlo per l’attività venatoria, potrà avere il nostro aiuto nella costruzione di edifici, nell’immissione di animali appartenenti a specie adatte al nuovo habitat, nella creazione e sviluppo dell’attività venatoria grazie al lavoro di personale adatto e con le necessarie conoscenze;
– Servizio prenotazioni per Safari in aree in cui noi non cacciamo, quali Camerun e Repubblica Centroafricana.
Gerard Fourie
Proprietario Marual Lodge Safaris

1960: L´ULTIMA GRANDE ANNATA A FASANO di Riccardo Turi
Dallo scorso anno, con il mio Beretta cal.28 monocanna sono un cacciatore a tutti gli effetti pur non avendo la licenza dato che non ho l´età necessaria. E´la stagione venatoria 1960/61 ed i nostri uliveti sono letteralmente invasi dai tordi. Ricordo che zio Franco, che lavorava a Bari e prendeva il pulman alle 7,45, usciva a caccia ogni mattina sino alle 7,30 ed ammazzava regolarmente 10/15 tordi.
Io invece, andando a scuola, potevo uscire la domenica mattina e tutte le volte che lo zio decideva di andarci di pomeriggio. Lo aspettavo alle 14,30 alla fermata per chiedergli subito se dovevamo andare a caccia e se mi diceva di si correvo avanti a cambiarmi.
E´ una domenica mattina penso del mese di dicembre ed andiamo negli uliveti della marina di Fasano in un posto chiamato “La Forcatella”, più noto per la caccia alle tortore ad aprile-maggio. Data la presenza di tanti tordi, tralascio di sparare i fringuelli e mi dedico ai tordi anch´io. Ne ho uccisi una quindicina quando sto per ritornare dallo zio dato che sono più delle 10. Mentre attraverso un fondo mi arriva un tordo proprio sulla perpendicolare ad una discreta altezza; faccio un bel tiro e sento una voce dietro di me: “Bravo! Sei il nipote di Franco?”.
Era un cerro Benazzi, cacciatore toscano che insieme al suo amico Guerra veniva immancabilmente ogni anno dalle nostre parti per cacciare i tordi insieme all´amico armiere di Fasano Stefano, oppure per andare in Calabria nella piana di Sibari da fine gennaio in poi in posti magici. Corigliano, Rossano, Spezzano, San Cosmo, San Demetrio, Vaccarizzo, La Silva.
Ebbene, quella mattina ammazzai con il mio piccolo fucile ad 1 colpo 17 tordi, che non sfiguravano con i ben più pingui carnieri dei “grandi”. Quell´annata non si è più ripetuta a Fasano, anche se non sono mancati anni soddisfacenti e, comunque, con il mio fuciletto avevo realizzato il mio più grosso carniere.
Riccardo Turi
A CACCIA NELLA STORIA: L´ANTICO EGITTO
Erodoto, l’antico storiografico, affermava che l’Egitto era un dono degli Dei; un fiume, da solo, in grado di permettere uno straordinario rigoglio di vita lungo le proprie sponde. Attorno ad esso cresceva, infatti, una grande varietà di piante e una ricca vegetazione permetteva la vita di numerose specie animali. Il popolo che abitava queste terre era un popolo fortunato perchè aveva a disposizione acqua e molte facili prede da cacciare e con cui nutrirsi, senza considerare anche tutte le numerose specie che vivevano più lontane, nel deserto e nelle montagne.
Inevitabilmente, così, gli Egizi si presentarono alla storia come una gente avvezza all’attività venatoria, vissuta, data la stragrande abbondanza di prede, non solo come un’attività primaria per il proprio sostentamento da parte dei ceti più poveri, ma anche come un’attività ludica, un nobile passatempo per faraoni. Tutti comunque, indistintamente, provavano quel misterioso, quasi mistico rispetto per le loro prede che questo affascinante popolo nutriva per tutte le creature che conosceva; quella che cacciavano rappresentava, per questo, non solo mera selvaggina, ma un dono degli Dei, da restituire agli Dei se non, talvolta, immagine viva degli stessi.
Le classi meno abbienti, che non potevano concedersi il lusso di imponenti cacce alle grandi belve del deserto, erano solite integrare la loro povera mensa con la cattura di piccioni, anatre, oche, gru e vari tipi di uccelli acquatici che venivano generalmente catturati mediante una rete stesa su uno specchio d’acqua tra due pertiche. Nel momento in cui i volatili ignari si posavano sull’acqua al di sopra della rete, mediante una corda che veniva tirata dalla riva, le pertiche si ribaltavano rapidamente intrappolando nella rete gli uccelli.
Se tali prede venivano cacciate a terra, era solitamente distesa una serie di trappole formate da reti con 6-8 lati, con una corda passante per ciascun angolo della rete, regolandone l’entrata. Gli uccelli venivano quindi attirati con esche quali grano e vermi e, una volta che la rete era piena di volatili, la corda veniva improvvisamente tirata intrappolando le prede. Talvolta, per differenti specie, venivano anche utilizzate come trappole delle buche. Gran parte delle volte la selvaggina appena catturata veniva uccisa e ripulita delle interiora direttamente in loco, quindi messa sotto sale in capienti giare per essere conservata a lungo.
Non tutte le prede venivano però subito consumate o sacrificate alla divinità; una parte di esse, soprattutto anatre, oche e gru, veniva infatti destinata all’ingrasso, per essere consumata in secondo momento. Scene di vita quotidiana nell’Antico Egitto, dipinte o in rilievo sulle parete di numerose tombe, ci mostrano effettivamente volatili addomesticati, rinchiusi in recinti, con inservienti intenti nell’introdurre a forza nei loro becchi dei pastoni per farli ingrassare.
Anche gazzelle e iene, una volta catturate, venivano sovente tenute in cattività; queste ultime, in particolare, erano spesso addomesticate ed utilizzate come cani da caccia, grazie al loro ottimo fiuto e alla grande capacità di seguire le tracce lasciate dalle prede.
La caccia agli uccelli nei pantani, che necessitava di una maggiore organizzazione, era invece un’attività ludica ad esclusivo appannaggio dei nobili che, attorniatisi dei propri servitori, amavano cimentarsi in battute utilizzando armi che nulla avevano di diverso rispetto a quelle belliche. Tali battute venivano generalmente svolte alla fine della stagione delle inondazioni, periodo in cui, oltre alle numerose specie stanziali, erano presenti nelle paludi del Delta anche numerosi uccelli migratori di passaggio.
La caccia veniva effettuata postandosi silenziosamente su canoe di papiro e la cattura effettiva della preda avveniva per mezzo di boomerang, dopo aver attratto un gran numero di volatili presso un uccello imprigionato ed usato come richiamo. Questo bastone da lancio era un palo ricurvo che, in realtà, nulla aveva a che vedere con la tipica arma degli aborigeni australiani, perché, una volta lanciato, non era in grado di tornare indietro. I numerosi servitori, che accompagnavano il sovrano nelle battute, trasportavano sia le armi che le prede catturate le quali, se eccessivamente numerose da non entrare nelle gabbie, venivano bloccate mediante la frattura delle ali.
Non di rado il faraone era anche accompagnato da cani, o addirittura gatti, ausiliari nel recupero delle prede abbattute.
Ma i regnanti, forti del loro seguito, potevano impegnarsi in ben altre avventure di caccia, molto più pericolose e prestigiose.
Tipicamente essi amavano affrontare l‘ippopotamo, specie molto diffusa all’epoca lungo le sponde del Nilo. Considerato come il re del grande fiume, questo animale era, ed è, una delle prede più pericolose da cacciare. Territoriale ed irascibile, esso poteva essere avvicinato solamente fino ad una certa distanza da squadre di battitori che rimanevano sulle imbarcazioni e si avvalevano di lance e di arpioni, costituiti da un asta di legno con, all’estremità, un gancio metallico, collegato alla barca da una robusta corda che permetteva di non far allontanare l’animale catturato. L’uccisione di tali animali, oltre a rappresentare una fonte abbondante di carne, si rendeva talvolta necessaria per consentire un passaggio sicuro alle imbarcazioni lungo il fiume e i canali.
Sulle sponde del Nilo era cacciato anche il gigantesco coccodrillo autoctono, simbolo egizio di malvagità, le cui fauci aperte simboleggiavano l’ingresso agli inferi; esso, emergendo dalle acque, veniva associato al culto del Dio del Sole Ra.
Non di rado, il faraone spostava il suo territorio di caccia nelle zone più interne e desertiche, per la cattura di struzzi e gazzelle.
Qui la tecnica di caccia cambiava; inizialmente effettuata a piedi, dopo l’avvento epocale del cavallo e del carro, il faraone cominciò ad armarsi di arco per scagliare frecce alla preda prescelta. Inizialmente quest’arma non era altro che un ramo di un albero tenuto curvo con una corda. Solo in seguito, divenne accuratamente levigato, con frecce costituite da fusti rigidi di canna, munite di punte in selce, bronzo e, infine, metallo.
Preda ambita era rappresentata anche dal toro selvatico, in quanto animale sacro e simbolo di fertilità; una volta cacciato, i suoi lombi venivano, infatti, offerti in dono alle divinità. Esso rappresentava la crescita annuale del Nilo, la forza, il valore, sostanzialmente la vera e propria essenza del faraone. La sua cattura era tutt’altro che semplice, ma rischiosa e cruenta, attuata mediante un laccio dal faraone in piedi sul carro trainato da cavalli. Per fiaccarne la resistenza potevano anche essere utilizzate armi da lancio e archi; una volta indebolito e catturato, esso veniva solitamente accudito in un luogo recintato.
La preda preferita dal sovrano era, però, indubbiamente il leone, simbolo di virilità, regalità e forza, animale sacro custode del sacro; esso metteva a dura prova il coraggio di chi osasse abbatterlo e la sua caccia, praticata esclusivamente dal faraone, aumentava il prestigio di quest’ultimo che, una volta catturata la fiera, la offriva come il dono più gradito che potesse fare agli Dei.
Sara Ceccarelli
LEE-ENFIELD
Il Lee-Enfield è stato e può essere considerato un po’ una leggenda, non tanto perché migliore o peggiore di molti altri fucili del panorama ex ordinanza ma perché, essendo arma britannica, è stato il fedele compagno di un numero elevatissimo di militari sia di Sua Maestà, che di tutti i Paesi del Commonwealth e delle colonie.
La sua storia è lunghissima e va dal 1895 al 1956; un utilizzo, quindi, che copre mezzo secolo di storia, essendo quest’arma presente sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale. Data la necessità di armare tanti eserciti diversi, è stato prodotto con alcune varianti in oltre 17 milioni di esemplari ed è secondo solo al Mosin Nagant russo.
Il Lee-Enfield è un classico bolt action, realizzato in calibro .303 british, con un serbatoio della capacità di 10 colpi, che può ricevere due caricatori da 5 colpi. Esso derivava da un precedente fucile da guerra a polvere nera, il Lee-Metford, e il nuovo fucile si rivelò per il militare anche migliore dei Maser, proprio per la sua azione bolt action, più veloce e che consentiva un ricaricamento estremamente rapido.
Il fucile fu adottato dall’esercito nel 1895 e prese il nome di .303 calibre, Rifle, Magazine, Lee-Enfield. Sin dall’anno successivo, vennero apportate modifiche, utili in particolare all’arma di cavalleria: la canna, in questa specifica arma, passò da 767 mm a 538 mm e la stessa prese il nome di Lee-Enfield Cavalry Carbine. Nello stesso anno, dopo alcune piccole modifiche, le due armi assunsero la denominazione di MKI.
Nel 1904 fu introdotta un’ulteriore versione, con una lunghezza di canna che era di 640 mm e utilizzava per la prima volta un caricatore che ospitava le munizioni. Seguirono alcuni perfezionamenti sul mirino posteriore e guida del caricamento fissa che portarono alla definitiva versione SMLE Mk III. Con questa versione, l’esercito britannico affrontò la prima guerra mondiale.
Questo conflitto fu un grande banco di prova, sia per l’utilizzo sul campo di battaglia sia per l’industria e, proprio per ragioni relative ad un sistema di produzione troppo complesso, nel 1916 furono apportate ulteriori modifiche che videro l’eliminazione della lamella per il caricamento singolo e del meccanismo laterale di correzione del tiro, nonché una diottra per il tiro a lunga distanza.
La seconda guerra mondiale recò con sé ulteriori esigenze e portò alla produzione del Rifle, No. 4 Mk I, più leggero, particolarmente robusto e di semplificata produzione. Per questo fu progettata una nuova baionetta, soprannominata “infila maiali” perché filiforme; seguì a breve la realizzazione di una nuova baionetta a lama.
Durante il corso della guerra, il fucile No. 4 fu ulteriormente semplificato per esigenze di produzione di massa, portando al design No. 4 Mk I*, che venne prodotto solamente nel Nord America. Queste armi servirono anche nella guerra di Corea. Durante entrambe le Guerre Mondiali e la Guerra di Corea, un certo numero di Lee-Enfield vennero modificati per ospitare le ottiche da cecchino.
Gli inglesi ed i canadesi, invece, modificarono il fucile No. 4 Mk I, vi aggiunsero un poggiaguancia ed un’ottica telescopica, e il fucile rimase in servizio per le parate e per l’addestramento al tiro dei militari.
In particolare l’impiego bellico di quest’arma in scenari particolari scenari, quali le giungle del sud est asiatico, portò allo sviluppo del Rifle, No. 5 Mk I Jungle Carbine, visivamente diverso, molto più corto e leggero delle normali versioni. Utile e versatile nella giungla, non godette mai, comunque, del favore dei militari perché il calibro .303 british era esuberante per un fucile leggero e produceva pessime sensazioni di rinculo nel tiratore.
Alessio Ceccarelli
LA GRANDE AVVENTURA NEL MAGICO BOSCO di Armando Russo
Il bosco con i suoi segreti e misteri è stato da sempre al centro dei miei pensieri. Già da ragazzino ascoltavo estasiato le favole che mi raccontava mia madre, con maghi, streghe, fate e folletti tutti abitanti di boschi più o meno belli e tenebrosi. Mi spaventavo all’arrivo dell’”Uomo Nero” quando, facendo i capricci nel mangiare la minestra, mia madre minacciava di chiamare l’Uomo Nero, quello che veniva dai boschi e qualche volta dal balcone di casa indicava un pacifico uomo tutto sporco di nero (il carbonaro) che tirava un carrettino pieno di carbonella, fatta ne bosco e che andava vendendo alle famiglie, ad uso del braciere che allora sostituiva la moderna stufa o il termosifone.
Avvertivano i vecchi saggi di un paesino dei Nebrodi (Militello Rosmarino) “Ti serru u’nanca cù sirraccu e poi ti mannu a fari ligna o’boscu da faitedda”.
Ragazzetto, quando mi era permesso, andavo a seguito di papà a caccia, l’itinerario però non era mai il monte ed il bosco, ma le colline e i prati (durante il passo primaverile delle quaglie), il bosco era un pericolo, non era fatto per le mie inesperte giovani gambe. Eppure, di boschi a Messina e provincia ve ne sono tanti, sui Peloritani o sui Nebrodi e Baronie, boschi magnifici di faggi, di querce e di rovere.
Bosco magico o fatato? Nei miei sogni di ragazzino questo meraviglioso luogo rappresentava la grande avventura, l’incontro con personaggi ed animali strani, pericolosi, come l’orco nero, misteri tenebrosi nell’intrico di piante, spazi e praterie verdi luminose e fiorite, funghi colorati, castelli in cima alle colline e le casette dei nanetti nel fitto degli alberi e dei roveri.
Oggi adulto incredibilmente colpito dal virus per l’amore alla natura, e nonostante le mie spedizioni venatorie, tra novembre e dicembre tra i policromi boschi di querce e faggi sui 1500 metri di Monte Soro, di Passo Miraglia e Femmina Morta, il “bosco magico” ancora mi aspetta dietro l’albero e al cespuglio di rovi, facendomi trasalire ogni rumore che cade, durante il silenzioso avanzare, sul variopinto tappeto di foglie che madre natura stende in Novembre per i miei passi di innamorato di bosco.
Nel mio peregrinare cerco le “regine”, le beccacce…nella solitudine, ovvero in compagnia di un amico, anzi amica, per la vita…la cagnetta setter bianca e nera, Dolly, che ama il bosco forse più di me. Sghignazza la variopinta strega (ghiaia) dalle cime del faggio, cattivi augurio per la “cumacca”, il gruppo che ogni anno va a rinnovare il rito della montagna. La “mavaria” di qualche strega che impedisce di incontrare le amate regine e le fa sparire al tuo passaggio, quando anche il setter le sente, maledette cornacchie!
Allora che fa il credulone? (ma non sono il solo!) Subito va a trovare la zia Maria che con l’acqua, l’olioo e l’aglio, più una indecifrabile cantilena ripetuta più volt,e ti dà l’illusione di allontanare il malocchio. E mentre subisci il rito a lume di candela, Ennio al culmine della cerimonia ti mette in mano il becco di una regina, per migliorare la ricetta ed essere sicuro dell’efficacia. Eppure io non credevo, ma Franco, che era addirittura soprannominato “scura”, sfortunatissimo, quella volta che mi si era appiccicato dietro, sfatò il sortilegio.
Si era al limitare del bosco, tra i faggi e d il sentiero con qualche chiazza di neve, godendo dell’aria fresca novembrina, i colori dell’autunno i profumi intensi del bosco vivo, con i cani felici di correre a destra e a manca, interessati dal porco nero che sfrasca dall’agrifoglio e ti fa trasalire, mentre scappa pauroso della tua presenza, veloce sfatando la favola del terribile orco nero e che si rivela un quasi pacifico porco…vivente (finché non lo cattura il porcaro) contento perché ha le sue ghiaie e radici.
Mentre i passi leggeri e silenziosi ti fanno avanzare tra cespuglio e rovetto, a sinistra chioccola sommessamente il merlo fischiatore scappando radente il prato e dalla quercia sfarfallavano via le gazze bianco nere, gracchiando irate all’intruso, e la sua immagine si interessa al balenìo fugace di madama volpe che ti incontra sul sentiero. Proprio allora ti accorgi che il bosco è magico anche se i sogni del ragazzo sono la realtà dei mille colori, delle mille luci, riflesse nelle gocce di brina, nei mille misteri del grigio della nebbia. I personaggi sono temuti e amati, si materializzano in incontri con i pastori, gli armenti, la volpe, la cornacchia, i merli, le ghiandaie e le pazze gazze.
Arriva proprio il momento, quando la fatica, la pioggia, il respiro affannoso della salita e dell’età proprio non verde ti impongono una pausa, ed il setter a lingua a penzoloni ti guarda curioso ed interrogativo per ricordarti che la regina, la tua fata…la beccaccia ti ha mollato perchè è andata via; quando pensi di ritornare e chiami i cani, ora spariti nel fitto dell’agrifoglio, allora incontri lo sguardo vitreo di Franco fronte a te, come se fissasse un miraggio.
Il tuo pensiero va all’idea di veder apparire un incantesimo, ti volti e guardi, t’accorgi nell’ombra leggera della regina nell’aria luminosa sopra la testa e la cima del faggio e resti imbambolato, poi… il cacciatore Franco va a raccogliere contento, guardando e riguardando tra le mani quel pezzetto di bosco e i suoi colori, felice di aver rinnovato il roto della montagna, l’emozione che lo perseguita da anni e gli rimescola il sangue, ora come allora, con il cuore ancora in gola, per l’incontro con la regina del bosco.
Armando Russo
NONNO LUIGI di Renzo Stella
Ora che era cresciuto, Ivan aveva un nuovo rapporto con il nonno paterno. Non che il suo rapportarsi con l’anziano fosse diverso da quando era bambino, ma ora sentiva dentro di sè una nuova complicità con quella persona cara che non vedeva da parecchio tempo. Voleva un gran bene a nonno Luigi, glielo aveva sempre voluto, quando ritornava da scuola correva a cercarlo per abbracciarlo, per poi trascorrere buona parte del pomeriggio ad aiutarlo a fare i milioni di lavoretti che il vecchio si inventava per passare il tempo.
Dal canto suo Luigi era felice della compagnia del ragazzino, sveglio, fin troppo sveglio per la sua età e di una simpatia unica, adorava quel nipote e lo trattava come un dono di Dio La moglie era scomparsa prima che Ivan nascesse, e per l’anziano la compagnia di un nipote che lo adorava era il nirvana. Lo portava con sè ogni qual volta si inoltrava nella campagna per cacciare e al ragazzo piaceva parecchio, anche se non aveva mai voluto provare a sparare.
L’uomo aveva lasciato, con il cuore triste, il Paese di campagna a diciotto anni per cercare di farsi una strada che non fosse quella dura dei campi, fatta di sole cocente, di nebbia di vento e di pioggia; ma soprattutto di fatica. A quell’età lo trovava distruttivo spaccarsi la schiena, la terra era troppo bassa per come la vedeva lui. Era migrato nella grande città, per costruirsi un avvenire, una posizione nella società dei consumi; si accorse dopo, anche dei falsi ideali.
Dopo anni di studio e sacrifici era diventato un affermato avvocato, ora aveva un nome di rispetto ed uno studio tutto suo; aveva anche una moglie e due bei bambini che vestivano all’ultima moda, come alla moda del momento era il suo fuoristrada superacccessoriato. Il suo cane da caccia con un pedigree di tutto rispetto. I suoi genitori vivevano ancora in quel paesino dimenticato, circondati da poche anime che sapevano tutto di tutti, dove tutti aiutavano tutti. Vivevano in quel paesino, accudendo le bestie ed i campi ma soprattutto il nonno Luigi, che diventava ogni giorno più vecchio, e si notava.
Ivan, l’avvocato, da quando era partito, ogni anno tornava a far visita loro portando dalla metropoli ogni ben di Dio: dagli utensili da cucina, veri marchingegni elettronici che la mamma non sapeva nemmeno usare bene, alle prelibatezze culinarie che al paese non si trovavano ma che avevano in bella mostra un cartellino adesivo con su scritto la data di scadenza ed il contenuto di grassi e di polisaccaridi. Roba da fantascienza, in un paese dove si era abituati a mangiare solo cibo sano fatto in casa e frutta di stagione e vino pestato con i piedi ed invecchiato in botti di rovere.
Ora Ivan portava loro un vino stupendo, come lo definiva, ma nascosto da un anonimo cartone che di bottiglia nemmeno aveva la forma. Il fuoristrada americano, entrò silenzioso nel viale sterrato che portava alla porta di casa, sebbene fosse Dicembre la stradina era secca e sotto il sole di mezzogiorno lasciava che le ruote del mostro meccanico alzassero un polverone che tutto imbiancava. La signora ed i bambini ne erano infastiditi, si sarebbero dovuti spolverare le scarpe; Ivan invece, aspirò a pieni polmoni quell’atmosfera che non sapeva più d’asfalto caldo o di benzina versata sulla strada. S
arebbero stati dieci giorni di vacanza, ritorno alle origini fin troppo presto dimenticate; ora non voleva più saperne di scartoffie, di code d’automobili, di puzza di tubi di scarico. Ora Ivan, dopo aver abbracciato forte la Mamma il Padre e nonno Luigi, si estasiava del fetore che proveniva dalla stalla e dal pollaio. Prese uno stelo d’erba dal bordo del vialetto, lo sistemò tra i palmi delle mani ed avvicinandolo alla bocca soffiò emettendo un fischio rauco che pareva il richiamo dell’aquila. I suoi figli non riuscivano a capire come facesse a fischiare con l’erba, lui non rispose alle domande, non si spiegò, guardò verso i campi in direzione di quelle colline che videro le sue corse sfrenate, il suo era lo sguardo di un uomo felice.
La sera li sorprese accanto al fuoco del caminetto della sala, raccolti in cerchio seduti su comode poltrone, antiche ma ancora in ottimo stato. La luce del fuoco disegnava sui muri tutt’attorno figure ed ombre calde che correvano tremolando nella stanza; il buon vino rosso, uscito però da una vera bottiglia di vetro scuro, faceva il resto ammorbidendo linguaggi ed emozioni lasciando il campo libero alla parola ed alla gioia di stare insieme. Ivan raccontava della sua vita, di come ora le cose gli andavano veramente bene, anche economicamente parlando; raccontava di quante soddisfazione gli davano i suoi ragazzi nella scuola e di come fossero educati e seri per la loro età ancora molto giovane.
Di come la moglie Anna era stata sempre un’ottima compagna fedele ed innamorata. I vecchi da canto loro, dopo aver elencato gli innumerevoli acciacchi, ripetevano continuamente i complimenti indirizzati ai nipoti ed alla signora, ricordavano episodi già straconosciuti come solo gli anziani sanno fare: con quel modo forse pedante ma tanto, tanto dolce. Il nonno Luigi era felice di poter prendere a braccetto di nuovo il suo Ivan; lo portò di sopra, in soffitta, dove custodiva quella doppietta, regalo della moglie, vecchia di cinquant’anni ma che pareva nuova. Aveva tutta l’intezione di regalarla al nipote come dono di Natale ed a suo imperituro ricordo. Sapeva benissimo quanto piaceva ad Ivan quel fucile.
Si commosse Ivan, gli occhi dell’uomo affermato di città quale ora era diventato, si bagnarono di lacrime che il nonno non poté vedere nella penombra di quel locale. Le stagioni del buon Luigi ormai segnavano da tempo sul calendario le novanta e da lì a poche ore sarebbe scoccata la novantunesima, il motivo delle ferie della famiglia riunita non era solo il Natale, ma il genetliaco del saggio patriarca. Ivan propose al nonno di fare una cacciata l’indomani, nei campi dietro la fattoria; naturalmente con tutta la calma necessaria, che si trovasse o no qualche bel selvatico poco importava, quello che contava era lo stare insieme, come tanto, tanto tempo prima avevano fatto.
Il fuoristrada americano si mise in moto che il sole stava per nascere; il vecchio stava aggiustandosi il vecchio cappello di feltro sulla testa mentre contemplava quel cruscotto pieno di luci e di scritte a lui incomprensibili. Dopo nemmeno venti minuti, cercava di scendere da quel mostro parcheggiato sull’erba crepitante di brina, era la vigilia di Natale. Nonno e nipote, come da troppo tempo non succedeva ammiravano assieme la corsa sfrenata del cane che incurante del gelo scandagliava con il suo potente tartufo ogni anfratto di terreno, di cespuglio o di siepe, cercando l’usta anche nel vento che a dir la verità era assente.
Non camminarono molto, anzi, fecero ben poca strada, quando il cane si bloccò impietrito davanti ad un gruppo di cannicciole che delimitava un piccolo laghetto, gelato. Ivan si ricordava ancora di quel laghetto poco profondo,era contento che fosse ancora lì, ricordava come lo faceva tanto divertire nelle lunghe e assolate giornate d’estate, quando vestito solo di pantaloncini e maglietta si tuffava per cercare refrigerio. Il cane pareva una statua di marmo, non un muscolo si muoveva, il suo sguardo perso in direzione delle canne; il tartufo aspirava in continuazione, la mascella masticava quell´aria piena d’odore.
Ivan si avvicinò quel tanto per dare un colpetto sulla testa dell’animale, un buffetto leggero accompagnato da un “vai” sussurrato a bassa voce. Un grido d’allarme strozzato e sgraziato provenì da quelle canne, ed un maschio di fagiano dalla coda lunghissima si manifestò davanti a loro in tutta la sua fierezza. Il nonno Luigi alzò la sua vecchia doppietta che tuonò per l’ennesima volta, due secondi dopo l’unico suono che si udì era dell’erba gelata schiacciata dalle zampe del cane che riportava l’uccello.
Un lungo silenzio seguì tutta l’azione; se fosse stato rumore, lo sguardo dei due uomini, sarebbe stato frastuono. Dalla vecchia casa i figli ed i nipoti guardavano commossi da lontano quelle due figure che abbracciate si stagliavano scure contro il sole di mezzogiorno. Il mostro meccanico sollevò ancora una volta la polvere nel vialetto della fattoria, scesero due uomini, un giovane ed affermato uomo di città ed un vecchio contadino dallo sguardo felice. Sarebbe stato un favoloso Natale, ne erano sicuri tutti quanti. La torta con novantuno candeline stava già aspettando di essere divorata.
Renzo Stella
LIMITI DI IMPIEGO DEI FUCILI E DELLE CARTUCCE DA CACCIA (2°Parte) dell´Ing Claudio Leonetti
Questo quarto articolo è estrapolato da “LE CARTUCCE DA CACCIA”, materiale di balistica venatoria prodotto e gentilmente messoci a disposizione dall’Ing Claudio Leonetti.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, risulta piuttosto lungo. Pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti:
– cosa sono le cartucce da caccia (1° e 2° parte);
– quali sono i limiti di impiego dei fucili e delle cartucce da caccia (1° e 2° parte);
– quali sono le modalità da seguire per poter raggiungere le migliori prestazioni;
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Balistica Venatoria”, che ciascuno potrà stampare e tenere per consultarlo in qualsivoglia occasione.
LIMITI DI IMPIEGO DEI FUCILI E DELLE CARTUCCE DA CACCIA (2°PARTE)
Problemi di balistica venatoria
Secondo i più noti autori, i problemi piuttosto complessi di balistica venatoria, possono essere riassunti nei seguenti punti:
1) Determinazione della potenza lesiva, a varie distanze, di pallini con diverso diametro, sparati con medesima velocità iniziale Vo.
2) Definizione della potenza lesiva, alle varie distanze necessarie, per abbattere varie specie di animali
3) Classificazione dell’importanza della sede delle ferite prodotte, connessa con le conseguenze immediate o successive delle ferite stesse.
4) Determinazione del numero delle ferite necessarie per assicurare l’arresto e la morte immediata della preda.
5) Dispersione dei pallini di vario diametro alle varie distanze, in dipendenza del tipo di strozzatura della canna.
6) Rapporti volume/peso/superficie dei vari selvatici (sagoma nelle varie proiezioni).
7) Combinazione più conveniente tra forza residua dei pallini e dispersione degli stessi tenendo conto del calibro del fucile, della carica e del tipo di canna.
8) Portata media probabile di un fucile di dato calibro.
Libri di balistica venatoria contengono tabelle dalle quali si ricava, data la Vo, la velocità residua sul bersaglio per pallini di diverso diametro, si può così determinare la potenza lesiva.
Ricordiamo che l’energia cinetica dei pallini alle varie distanze è pari alla forza viva:
F = P x V² / 9,81 x 2 in Kgm |
Dove V = velocità residua; P = peso proiettile
Non ci addentriamo troppo nella trattazione tecnica e supponiamo che sia noto il “quantum” di energia necessaria e sufficiente per l’abbattimento di una preda. Consideriamo che lo stesso può essere dato da un solo pallino di grande massa e bassa velocità oppure da molti proiettili di piccola massa e alta velocità e, posto inoltre di conoscere la distribuzione di questi stessi proiettili nelle rosate, si può arrivare, con calcoli piuttosto laboriosi a determinare, almeno orientativamente, le caratteristiche che devono avere le cartucce da caccia destinate all’abbattimento dei vari tipi di prede o viceversa da un esame balistico della cartuccia risalire alla reale efficacia.
Nel caso citato di un solo proiettile a bassa velocità residua potrà essere causata alla preda una ferita o contusione di scarsa profondità (si ha l’arresto solo se il proiettile colpisce un organo vitale); nell’altro caso, molti piccoli pallini ad alta velocità residua, possono provocare numerose ferite penetranti ed avere quindi maggiore probabilità di colpire organi vitali; si possono però in quest’ultimo caso, causare ferite trapassanti (passata) e così avere perdita di energia: secondo questa alternativa la preda non verrebbe arrestata e finirebbe lontano.
Si vede perciò come sia necessario determinare il peso (diametro) più opportuno dei pallini per ogni specie di selvatico, per essere sicuri sia di non sprecare energia a danno del potere d’arresto sia per conservare la massima probabilità di colpire con molti proiettili la preda. E’ nota una regoletta empirica che dice che il peso del pallino più adatto per una certa preda è quello che corrisponde a 1/5.000 del peso della preda stessa. In effetti questo rapporto è assai approssimativo e si potrebbe precisare che per le piccole prede tale rapporto può essere 1/1.000 e per prede fino a 5 kg può arrivare a 1/10.000.
Specie Selvatico | Range Piombo Consigliato |
Allodola | dal 10 all´11 |
Tordo | dal 9 al 10 |
Pernice | dal 6 al 7 |
Fagiano | dal 5 al 7 |
Colombaccio | dal 5 al 7 |
Beccaccia | dal7 all´8 |
Anatra | dal 5 al 6 |
Lepre | dal3 al 6 |
Per quanto riguarda il “quantum” di energia sufficiente ad arrestare la preda è diffusa un’altra regoletta: dividendo il peso dell’animale per 5, si ottiene quale quoziente, la forza viva necessaria espressa in Kgm che deve possedere ciascun proiettile che colpisce una preda, per avere la sicurezza di arrestarla (rottura delle ossa lunghe, arresto per shock). Questa formula è molto approssimativa, ne esistono altre più complesse, corredate da tabelle, che danno diametro, peso pallini, distanze, forza viva, peso medio della preda, superficie delle sagome degli animali etc……
Posto che una rosata di pallini arrivi sul bersaglio con una certa velocità residua sufficientemente elevata perché ciascun pallino possa riuscire letale per la preda, maggiori probabilità di arresto immediato si hanno quando più pallini colpiscono la preda.
Il generale Journée, dopo migliaia di prove, purtroppo comprovate dalle statistiche susseguenti la Prima Guerra Mondiale, e relative al bersaglio “uomo”, ha asserito che per avere buone probabilità di provocare la morte immediata di un bersaglio animato è necessario colpirlo con almeno 5-10 proiettili (principio delle cinque ferite). Il “principio delle 5 ferite” è strettamente collegato con il concetto di regolarità di rosata, in quanto conosciuta la distribuzione della rosata nello spazio, si può arrivare a determinare la portata micidiale massima (a tiro centrato) di una cartuccia, nonché il valore della distanza di tiro più favorevole (che tiene conto dello scarto di mira del tiratore), e, infine il diametro del cerchio di rosata relativo a questa stessa distanza. E’ evidente che un “buco” nella rosata riduce fortemente la probabilità di abbattere un selvatico a conferma di come sia importante la regolarità di rosata.
Altro concetto è la profondità di rosata. Tirando ad un selvatico in movimento, calcolato il giusto anticipo, se la velocità dei primi pallini e degli ultimi è molto diversa diminuisce fortemente la probabilità di colpire la preda con quei famosi cinque pallini. Ciò, a detta degli intenditori, è ancora più importante nel caso del tiro al piattello. Da ciò scaturisce la necessita di ridurre il più possibile la profondità di rosata. Per concludere, dopo aver parlato di infittimento della rosata, del principio delle 5 ferite, ecc… risulta evidente che più numerosi sono i proiettili contenuti in una cartuccia, tanto più si ha la possibilità di colpire ed abbattere l’animale.
Il cal. 12 perciò è senz’altro il fucile che dà le maggiori soddisfazioni in questo senso, avendo la maggiore portata, intesa limitativamente, e cioè non solo come la distanza alla quale i pallini sono ancora micidiali, ma come la distanza alla quale la rosata è ancora uniformemente infittita, da offrire la certezza di colpire con almeno 5 pallini “micidiali” quella determinata preda.
Si deve però riconoscere che nei calibri inferiori le portate non decrescono proporzionalmente ai calibri stessi.
Si può per esempio calcolare come, considerato come bersaglio un fagiano, le condizioni supposte, a tiro ben centrato, si possono verificare:
* fino a 38,5 metri con il cal. 12
* fino a 37,0 metri con il cal. 16
* fino a 36,5 metri con il cal. 20
* fino a 29,5 metri con il cal. 28
Da ciò credo sia nata l’errata convinzione, piuttosto diffusa, che il cal. 20 “porti” più lontano del cal. 12. Più volte è stato sottolineato il termine “tiro ben centrato” perché, se il tiro tale non fosse, lo svantaggio dei calibri inferiori verso il cal. 12 aumenterebbe notevolmente.
Ing. Claudio Leonetti
Nel prossimo articolo: CARTUCCE DA CACCIA: MODALITA’ DA SEGUIRE PER RAGGIUNGERE LE MIGLIORI PRESTAZIONI (1° Parte)
GARE COL CANE DA FERMA E SPANIEL: IL CONCORRENTE (2° Parte) di Angelo Di Maggio
Questo articolo è estrapolato da “Gare col Cane da ferma e Spaniels”, testo prodotto e gentilmente messoci a disposizione dal Sig Di Maggio Angelo, Giudice Cinofilo e grande appassionato di caccia; egli, grazie all’esperienza acquista sul campo quale giudice della Libera Caccia, ha giudicato e giudica in gare organizzate da qualsiasi “associazione venatoria” che da questa sia chiamato a farlo.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, è della lunghezza complessiva di circa settanta pagine; pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, cercando di mantenere continuità di contenuti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti gli operatori del settore, aspiranti giudici, delegati cinofili o semplicemente appassionati del magnifico mondo delle gare cinofile.
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Cinofilia”, che ciascuno potrà stampare e tenere come manuale completo ed esaustivo, da consultare in qualsivoglia occasione. I
IL CONCORRENTE (2° Parte)
Cosa non deve fare…
Ci sono errori che portano alla eliminazione del concorrente, quali:
* abbattere un selvatico diverso da quello consentito;
* abbattere un selvatico in più di quelli consentiti:
* rivolgere l´arma o sparare in direzione del pubblico o della giuria quando non c´è debita distanza; (il giudice può concedere, invece, una maggiorazione di punteggio al concorrente che abbia “rispettato” il pubblicogiuria);
* sparare una cartuccia in più di quelle consentite (massimo 2 cartucce per ogni capo da abbattere);
* incarnierare un selvatico in più di quelli consentiti.
Attenzione! Se il cane abbocca un selvatico menomato, o che si rifiuta di partire, ovvero abbandonato morto in un turno precedente ed il concorrente non lo consegna al direttore di campo o chi per lui e non chiede peraltro al giudice di poterlo incarnierare, se nel prosieguo del suo turno abbatte i selvatici consentiti, si troverà ad aver incarnierato un selvatico in più e pertanto verrà eliminato. E´ perciò buona norma chiedere sempre al giudice il quale disporrà in merito.
Il concorrente sarà, invece, penalizzato:
* se spara a selvatico non fermato o lavorato dal cane (cioè sullo sfrullo causato da lui o dal cane);
* per ogni capo abbattuto, ma non incarnierato (cioè nel caso che il cane non l´abbia trovato e sia stato abbandonato);
* se non raccoglie i bossoli (cacciatore ecologo).
Il primo esempio penalizzante, generalmente non è tenuto in considerazione nelle “garette” domenicali. In esse, infatti, si lascia abbattere il selvatico comunque sfrullato, sempre che ciò sia stato preventivamente disposto dal giudice. La variazione, valida solo in gare ufficiali, é in vigore dal 1999 e tale è stata apportata in aggiunta al Regolamento Sant´Uberto all´art.17, del quale dirò appresso.
E´ da tener presente che per il selvatico abbattuto di prima canna viene assegnato un punteggio (2 punti su quaglia – 4 su fagiano o starna); la metà se abbattuto di seconda canna, “0” se sbagliato, ma la penalizzazione in questo caso si ripercuote sulla voce “abilità” con conseguente abbassamento di tale punteggio. Nelle gare ufficiali, la selvaggina consentita da abbattere é il fagiano; non più di due capi per turno, con un massimo di 4 cartucce.
Ritengo esprimere la mia opinione su un´altra casistica che nelle gare in genere può facilmente verificarsi. Il cane è in ferma; il concorrente, nel mentre va a servirlo, sfrulla un selvatico. Che fare?. Rispondo col riaffermare che “dove non c´è regolamento, vale l´azione di caccia”: si spara al selvatico sfrullato, poi si va a servire il cane che, se ha cervello deve continuare a rimanere in ferma e se l´abbandona si penalizza.
A servizio avvenuto con conseguente altro abbattimento, il cane deve riportare il selvatico fermato, poi recupera quello precedentemente sfrullato ed abbattuto. In questo caso però, il concorrente potrà usare un piccolo accorgimento: lasciare un segnale (guinzaglio, berretto o altro) per terra, nelle vicinanze del selvatico abbattuto e poi andare a servire il cane in ferma; ciò per un pronto recupero successivo.
Giudice di Gara Angelo Di Maggio
La prossima settimana seguirà: “Gare col Cane da ferma e Spaniels: il cane” (1° Parte)
A VIGNA DI´ SURDI
Il rumore stridente della finestra rompe il silenzio assordante della notte, regalando lo spettacolo grandioso di un cielo terso e limpido ricamato di miliardi di sogni luminosi. Fateci caso, solo quando le nostre città erano nella penombra potevamo godere di spettacoli così belli. Un attento esame di alcuni segni dava al cacciatore le previsioni meteo, come annusare l’aria e capire la direzione dei venti.
La chiaranzana di quella notte, di un lontano autunno del 1960, era un chiaro presagio che ci sarebbe stato tempo da nord e quindi un buon passo di migratoria. Io, allora ragazzino di quasi undici anni, lo avevo appreso dai più grandi, insieme ad altre nozioni elementari, ma basilari per chi esercitava la caccia. Erano le tre e l’enorme voglia di bruciare quelle poche ore che avrebbero permesso il trionfo dell’ennesima alba, non mi permetteva di prendere sonno.
Più il tempo passava, scandito da una sveglia chiassosa, e più in me nasceva la paura di addormentarmi con il rischio che Lui non mi chiamasse. Alle quattro e mezza una mano forte, ma delicata nello stesso tempo, mi scuote facendomi fare un balzo ed in soli pochi secondi sono già vestito e pronto. Sento quel buon profumo di caffè, rigorosamente d’orzo, che riempie gli ambienti, due stanze ed un cucinino che ospitano la mia famiglia. Riempito il termos e riposto nello zaino capiente, il rumore sordo della porta che si chiude alle nostre spalle è come lo sparo dello starter per l’atleta.
Ci si incammina con passo veloce per le vie poco illuminate e non bisogna certo guardarsi dalle macchine od altro, solo qualche cane randagio ti accompagna per pochi metri con il suo abbaiare. Il percorso che normalmente si percorre in una ventina di minuti, è letteralmente divorato come se ci fosse la paura che quel giorno l’alba arrivi prima. Arrivati in prossimità del cimitero di Condera, che è quel limite riconosciuto come periferia della città, nel buio più fitto, si sentono i passi di altri che fanno il nostro stesso percorso.
Lui è sempre pronto a fermarsi e salutare gli amici cacciatori, Cristofaro Marra anche lui accompagnato da uno dei figli e dall’immancabile sedia di corda intrecciata, compare Lo Giudice ed altri che frequentano da sempre lo stesso posto di caccia: a vigna ri’ surdi. E’ un vigneto immenso per gli occhi di un ragazzino come me, nel cui interno sono punteggiati innumerevoli alberi di fichi, ed è posto ad est del cimitero, e nel periodo del passo autunnale è il posto migliore per allodole, storni e qualche tordo.
L’ingresso sembra un labirinto ma c’è sempre il rito del saluto ai proprietari che già a quella ora sono al lavoro e che non vedono noi come invasori o vandali, conoscendone le doti di educazione e civiltà. Il mio compito era quello di recuperare la selvaggina e portare lo zaino con le cartucce, ma sempre tenendo a mente quelle regole che Lui mi ripeteva; “stai sempre dietro a me e non venire mai davanti alle canne del fucile, e segna il punto di caduta degli uccelli ”. E sapeva che quelle poche regole me le sarei portate dentro di me per sempre.
Le poste erano ripari improvvisati tra i filari, dietro qualche albero di fico, ed erano quasi automaticamente fatte proprie da anni di frequentazione. Anche se arrivavi in ritardo e la posta era occupata da altri, c’era sempre qualcuno che faceva posto al ritardatario. Il sibilo di un passaggio radente del solito tordo ti da la sferzata ed è il segnale che la giornata è iniziata. E quando la natura cambia scenario, come in un teatro, passando dal cielo stellato al roseo cangiante dell’alba, ecco che i tuoi sensi sono al massimo della percezione per essere pronti a dare il meglio di te.
Lui che era solito fare vita riservata e parsimoniosa, dedicava tutto il suo tempo al lavoro, alla caccia ed alla famiglia cui non ha fatto mancare nulla crescendo quattro figli insieme a Lei che sicuramente aveva il carattere forte per tenere a bada quattro pesti. Con i risparmi di non so quanto tempo si era regalato un calibro 20, comprato da un artigiano di Brescia, tale Zanardini,. L’unica passione della sua vita: la caccia. Il rito del caricamento delle cartucce, nei pomeriggi piovosi era un religioso susseguirsi di movimenti che si concludevano con l’orlatura eseguita a mano.
Il tutto suggellato con la sigla sul tapponcino di chiusura che riconducevano al tipo di polvere usata ed alle dosi di caricamento. Ed ecco che il primo colpo andato a segno mi fa scattare dai blocchi ed andare a recuperare il primo tordo della stagione. Solo allora c’è la frenetica ricerca nello zaino delle cartucce da passare di volta in volta quando Lui ne facesse richiesta. Il susseguirsi di azioni reali che hai sognato tutta la notte è un tripudio di emozioni, dai continui avvistamenti, all’orgoglio nel vedere Lui che effettua tiri quasi impossibili e poi la delusione per qualche immancabile padella.
Da ragazzino non ti spighi come mai quando fai qualcosa che ti piace il tempo è come un cerino che si brucia troppo velocemente, mentre ora che ragazzino non sei più capisci che tutto quello che ti rende felice va gustato poco a poco, cercando di avere ancora emozioni. Alle dieci il passo si è notevolmente affievolito, ed a me è concesso andare a raccogliere le carrube sotto un albero grandioso per dimensioni. E’ l’unico momento in cui la mia mente è spostata su un obiettivo che non sia la caccia.
Per anni ho portato lo zaino ed aspettato che Lui mi concedesse la possibilità di sparare qualche colpo, cosa che avvenne verso i quindici anni, sempre sotto la sua diligenza. Al compimento dei sedici anni l’abilitazione all’uso delle armi da caccia e finalmente il primo porto d’armi. Io che ero stato comparsa delle sue avventure stavo per diventarne attore. Non ha mai mostrato contrarietà per quanto fatto per me nell’educarmi all’arte venatoria, ed in questo riconoscevo la felicità di avere trasmesso a me quella che per lui era una passione infinita: la caccia.
Di anni insieme, condividendo un grande amore, di cui non sei geloso se l’altro ama come te, ne sono trascorsi tanti. Non più a piedi e vicino casa, ma in macchina e sempre più lontano. E quando io raggiungo la maturità e sono diventato un provetto cacciatore e padre di famiglia, Lui è sempre più anziano, ma sempre con la speranza di ricevere una mia telefonata che gli faccia passare una giornata con il suo grande amore. I sentimenti che io provavo a guardarlo cacciare e gioire per i suoi tiri con il suo calibro 20, ora sono i suoi. Io ragazzino guardavo Lui grande, ora Lui anziano guarda allo stesso modo me grande ed è orgoglioso di avermi iniziato e tramandato l’unica vera sua passione.
Una grande passione è tale non solo quando la si vive, ma quando la si condivide con chi tu ami, ed è ancora più grande se questo è tuo figlio. Avrete capito che Lui era mio padre, venuto a mancare alcuni anni fa, ma il dolore per la perdita di un genitore è una ferita che non si potrà mai rimarginare quando insieme a Lui sono scomparsi anche quei luoghi magici che ti hanno fatto crescere. Oggi a vigna ri’ surdi che potrebbe sembrare solo un lontano e nostalgico ricordo ancora esiste, non certo sul territorio, sconvolto da urbanizzazioni selvagge ed altro, ma quando ricordi la figura paterna non puoi fare a meno di vederla e toccarla nei tuoi ricordi.
A tutti auguro di avere e coltivare una passione, che sia la caccia o la pesca non importa, ma quello che è importante è condividerla con altri a cui vuoi bene, amici o figli che siano. Se poi hai la fortuna che tuo figlio ami queste sane passioni, allora devi in ogni modo cercare di trasporle a lui, perché come è scomparsa a vigna ri’ surdi altre cose che oggi ci appartengono sono destinate a sparire ed a qualcuno è demandato il compito di ricordare.
Carmelo Chirico
IL VERO SENSO DELLA CACCIA
3 dicembre 2004, aveva piovuto per tutta la notte interrottamente, tuoni, fulmini e acqua a non finire, andai a letto un pò piu tardi per via di una festa di compleanno a cui insieme alla mia ragazza non potei mancare. Non pensavo di andare a caccia l’indomani, “troppa pioggia, pensavo, sarà tutto inzuppato ammesso che la smetta, meglio restare a casa”.
Ma come al solito alle 5:30 la mia sveglia mentale venatoria, attiva solo sabato e domenica, mi fece aprire gli occhi. Fuori non pioveva, ma era tutto allagato ma non riuscii a restare a casa, allora mi alzai, feci il caffè, mi preparai fucile cartucciera e via nel giardino a prendere Roby. Presi solo lui, se avesse cominciato a piovere di nuovo con un cane solo, sarei tornato subito a casa, avevo intenzione di andare a disturbare alcuni conigli nascosti in un giardino di limoni che il proprietario (mio amico) aveva abbandonato per via della sua malattia, e che era ormai coperto di rovi e spine.
Questo giardino abbandonato si trovava al confine con il fiume che taglia in due il mio territorio era lungo circa 100 metri e largo 200, ma il rovereto ne copriva interamente solo metà superfice. Arrivai, scesi dalla macchina, sciolsi roby che dopo il suo abituale bisognino andò dritto dentro al giardino( conosceva benissimo quel posto). Iniziò la danza della sua coda e il suo naso non si staccava un attimo da terra, ogni tanto alzava la testa per controllare la mia posizione. Pensavo tra un po’ entra nei rovi e lo trova!!
Effettivamente dopo aver controllato per bene il perimetro del rovereto, il cane mi guardò (ci parlavamo con gli occhi con quel cane) e si infilò strisciando a terra dentro al rovereto. Pensai subito: tra un po’ uscirà il coniglio, in effetti dopo un po’ il cane si fece sentire con la sua forte voce e iniziò la canizza. Diversamente dal solito però il coniglio non iniziò il suo lungo andare e venire, destra e sinistra, dentro al rovereto, ma parti dritto e iniziò a salire. Subito mi precipitai per raggiungere la fine del rovereto e mi appostai sul terreno confinante appena arato.
Sentivo le voci del mio cane sempre più vicino, sempre di più, sta arrivando pensai e portai il fucile alla spalla e mi preparai al tiro. Giunti a circa 10 metri da me, subito prima della fine del rovereto che osservavo spasmodicamente, il bastardo girò e tornò in basso piu veloce ancora senza mostrarsi per un attimo alla mia vista, lasciandomi come un pesce lesso. Senti’ il cane allontanarsi ancora, feci un’altra infinita corsa tornando indietro e appostandomi dalla parte opposta (quanto mi mancò la compagnia del mio compagno di caccia quella mattina).
Li sentii avvicinare ancora, sempre di piu, mi preparai ma giunti vicini a me, dopo 2 minuti di assoluto silenzio, il cane si era zittito, dal rovereto usci solo il mio cane. Pensai ma che è successo? Lo hai perso Roby? Può essere che aveva un buco proprio qui e si è infilato? No impossibile il cane avrebbe abbaiato davanti al buco un po’ facendomelo capire. Mentre pensavo vedevo il cane impaziente di rientrare nel rovereto… strano, se lo avesse perso o si fosse infilato il cane avrebbe dovuto allargarsi per trovare un’altra passata invece no!!
Resto fermo e lo osservo,il mio roby mi guarda, si sposta di 20 metri in alto ed entra nel rovereto lateralmente, parte subito la canizza e vedo uscire come un missile dal mio lato il coniglio… sparo e lo prendo, dopo averlo messo nella cacciatora penso a tutto quello che è successo… E mi torna in mente la frase di mio zio, che quando mi regalò roby mi disse:”attento a come ti muovi con lui, il cane guarda sempre dove sei tu, per metterti in condizioni ottimali per sparare”.
Bhè il cane aveva capito che avevo fatto la corsa verso sopra all’inizio e quando il coniglio ha girato tornando indietro, il cane si è fermato di inseguirlo per un po’, è uscito per accertarsi della mia posizione ed appena visto che ero piazzato bene lo ha fatto uscire per consentirmi il tiro!!! Quella mattina dopo quel coniglio tornai subito a casa, non avevo bisogno di altre emozioni né di altre soddisfazioni, ancora una volta il mio cane mi aveva reso felice.
Qualcuno potrà pensare ma come solo un coniglio e torni a casa..? Si, proprio cosi, la caccia non deve darti né carne da mangiare né carniere, ma solo regalarti immense emozioni, e di queste ero già pieno. Tornato a casa il mio cane ebbe la sua ricompensa: il suo uovo sodo e la sua scodella di carne con una spruzzata di formaggio grattugiato sopra, invece del solito eukanuba. Mangiò e capi di avermi fatto felice!!!
Livio
UN RIENTRO FORTUNATO
Pur essendo cacciatore da sempre (45 licenze), sposato da 35 anni con 8 di fidanzamento, con mia moglie è sempre stata una lotta continua per la faccenda della caccia. Quando cominciai a lavorare (in Banca) nel gennaio 1974, dopo qualche mese di matrimonio andammo a vivere a Noci, in provincia di Bari, sede del mio lavoro. Bellissimo paese dell’entroterra e zona ideale per la mia caccia preferita: i tordi.
Ma con mia moglie erano continue litigate anche se, devo aggiungere, una volta la lasciai sola e incinta alle 3 di notte(febbraio 1975) per andarmene a caccia in Calabria e tornare il pomeriggio del giorno dopo! Orbene mia moglie si calmava soltanto quando allora i fine settimana andavamo a Bari a casa della madre a dormire. Infatti io portavo con me fucile, cartucce ed abbigliamento e me ne andavo a caccia sia il sabato che la domenica con la sua completa acquiescenza.
E’ una domenica pomeriggio di gennaio, appena dopo pranzo. Non so che fare, mia moglie incinta conversa con la madre e con le cugine venute a pranzo. La giornata è bella con poco vento di scirocco e decido all’istante di andarmene a caccia da solo. Con la mia Fiat 127 bianca mi dirigo verso i boschi di Ruvo, in un posto che avevo frequentato altre volte. Verso le 15,30 cominciano a ritirarsi i tordi sempre più numerosi.
Il carniere è soddisfacente perchè 20 minuti prima del buio ne ho recuperati una decina. Ma l’ultimo quarto d’ora è incredibile: un continuo arrivare di tordi tutti a tiro. Non riesco a spararli tutti anche perchè devo pure recuperare le prede per evitare di perderle. Se avessi avuto qualcuno per il recupero forse ne avrei abbattuti almeno 50! Alla fine riesco a recuperarne 28, carniere di tutto rispetto.
Pieno di orgoglio me ne torno a casa e quando arrivo gonfio di soddisfazione mio suocero, che mi apre la porta, alla vista di tutti quei tordi che cosa mi dice? “Sei andato a comprarli?”. Inutile dire che qualcuno in famiglia, visto che me ne ero andato a caccia da solo, aveva pensato chissa cos’altro! Abbastanza seccato risposi comunque educatamente che quello era il frutto di un pomeriggio fortunato.
Riccardo Turi