L’apertura della caccia è sempre stata un avvenimento vissuto con sentimenti forti ed a seconda degli ambienti frequentati talvolta anche intensi e passionali.
L’apertura avveniva in agosto ed era l’apoteosi di un susseguirsi di sensazioni vissute giorno per giorno, dalla chiusura dell’anno precedente sino alla sera della tanto agognata vigilia e già due settimane prima del giorno indicato per l’inizio della stagione venatoria, si cominciava ad andare in ricognizione nei posti conosciuti per monitorare la presenza di uccelli ed osservare lo stato dei luoghi.
Sembrerà strano ma quando oggi leggo di conservazione dell’eco sistema, non posso fare a meno di pensare che nulla si inventa dal nulla, e la mia considerazione nasce dal fatto che se vi erano stati incendi in una certa zona, noi si preferiva non appesantirne la pressione venatoria e cacciare altrove. E’ pur vera un’altra constatazione, gli incendi non erano così frequenti ed intensi come oggi, considerato che le nostre campagne erano curate e frequentate dai contadini che nulla avrebbero permesso perché tutto il loro lavoro andasse in fumo.
Come al solito la vigilia dell’apertura della stagione venatoria era un rito cui non potevi sottrarti, anticipata da giorni e giorni di preparativi e proposte su dove andare e che cosa cacciare, ma il culmine, di quello che si considerava una festa, si toccava con la cena cui partecipavano tutti quelli che l’indomani sarebbero stati amici ed avversari in una sana competizione tra di loro e la selvaggina.
Avveniva così che il gruppo, quasi sempre numeroso, quell’agosto del 1981, la sera si ritrovò a cena e tra buon cibo e qualche bicchiere di vino, fece le ore piccole in attesa della partenza che era fissata per le 4,00, alla volta dei piani del Poro, in prossimità dell’aeroporto militare di Vibo Valentia, dove nei giorni precedenti avevamo accertato la presenza di tortore e colombacci.
La presenza di questi uccelli in quei posti, nel periodo estivo, è quasi sempre numerosa per l’alternanza di boschi e di colture intensive a graminacee, ma la loro permanenza dipende dalle condizioni meteorologiche, in quanto i temporali di fine agosto ne hanno sempre determinato la partenza anticipata, e quando ciò avveniva, i cacciatori si ritrovavano a fare lunghe passeggiate tra i campi senza sparare un colpo.
Fu così che all’ora prestabilita ci ritrovammo alla “Rotonda”, nei pressi della chiesa di San Paolo, una chiesa alla periferia di Reggio Calabria, ed a bordo di un furgone che mio cognato Orazio si era fatto prestare dal fratello commerciante, partimmo in sei alla volta di Vibo Valentia, con tante di quelle cartucce che avremmo potuto sostenere una ipotetica battaglia con un esercito nemico.
Il viaggio si protrasse per quasi un’ora e mezza tra scherzi e sfottò, con bersaglio preferito Angelo che aveva acquistato un automatico giapponese, con un nome impronunciabile, giurando su prestazioni eccezionali. Di Domi invece fu il turno quando si affrontò l’argomento cani, dato che il suo bracco tedesco, come segno di affetto aveva l’abitudine di farti un bagno con la saliva, e che per le dimensioni, non certo minute, entrava a mala pena nella Fiat 128.
Tra celie e scherzi l’arrivo sul posto di caccia, “i chiani da luna“ in prossimità della frazione Caria, che dista pochi chilometri da Tropea, fu quasi una passeggiata di salute, tenuto conto della scomodità del furgone su cui viaggiavamo, ma l’arrivo avvenne con largo anticipo sull’alba prevista. Individuate le poste e dopo gli scongiuri di rito, non c’è altro che l’attesa perché il sorgere del sole dia inizio ad una nuova avventura che, oltre alla riuscita di quella giornata, è piacevole in quanto inizio di un nuovo anno di caccia da gustare a pieno presagendo le mille emozioni che proverai di volta in volta.
Il canto di un cuculo, che dal folto di un bosco ripete la sua cantilena, scandisce il tempo in un’atmosfera di ansia e l’attesa sembra non finire mai, mentre ripassi mentalmente la posizione delle cartucce che hai selezionato, tocchi e riguardi la sicura del tuo fucile, imbracci l’arma in prove di mira e sei sempre dubbioso, come se fossi sicuro di avere scordato qualcosa di importante, che potrebbe pregiudicare la buona riuscita di quella giornata di caccia, e che però non sai cosa sia.
Al primo colpo sei come una corda tesa, con tutti i sensi al massimo della percezione, con la speranza che chi ha sparato non abbia fatto centro e che il selvatico, guidato da chissà quale intuizione, venga a tiro del tuo fucile. Bel sogno ad occhi aperti!!!! Al 99% questo non avviene mai, ma subito dopo un altro sparo ti allerta e sei già pronto a dire la tua mentre rientri nel mondo reale e metti da parte le immaginazioni che ti hanno fatto compagnia sino all’alba. Il rumore prodotto dal battito d’ali della prima tortora mi sorprese e si fece beffa di me, nel momento che, levatasi da un albero di ulivo posto alle mie spalle, in un attimo si tuffò nel folto di un boschetto, lasciandomi con un palmo di naso e con un dolore al collo per il movimento brusco cui mi ero esibito per individuarne la direzione di provenienza.
Intanto gli spari si fecero più frequenti, segno della presenza di tortore, e quando un branchetto ebbe l’ardire di visitare il pianoro dove ci eravamo sistemati, fu accolto da una scarica di fucileria con il risultato di lasciare a terra tre malcapitate, ignare che quel giorno dovevano trovarsi un posto più sicuro per soggiornare. Mi ero appostato al limite di un campo coltivato a granturco, che era proprio al limite di un bosco fitto ed inaccessibile, ed anche se sapevo che avrei dovuto pagare dazio per la difficoltà del recupero, sicuramente avrei avuto più possibilità di trovarmi sulla linea di tiro di qualche colombo e delle tortore che andavano ai luoghi di pastura.
Quel giorno la presenza di tortore ci fece ammattire e per me ed i miei amici, tra tiri impossibili e qualche padella colossale, i carnieri furono gratificanti. Alle spalle della mia postazione si era sistemato un cacciatore, che sicuramente sapeva della vivacità del passo mattutino in quel punto, ma dopo avere visto che ero in giornata di grazia e che mettevo giù tutto quello che era nella mia linea di tiro, si cercò una sistemazione alternativa, molto lontana da me.
Fu così che in due ore, e prima che il caldo torrido si impossessasse di quei luoghi, avevo abbattuto due tortore, un colombaccio e, cosa non certo insolita, tre ghiandaie. Anche gli altri avevano avuto fortuna, e spesso ci scambiavamo pareri ed indicazioni sulle cartucce da usare, il tutto condito con qualche episodio di ilarità come quando il tanto decantato automatico giapponese di Angelo andò in tilt con la perdita di una miriade di pezzi metallici e molle che formavano il gruppo otturatore, e fine della giornata di caccia per il nostro amico che dopo quell’esperienza tornò ai più affidabili fucili nostrani.
Cosa ha di speciale l’apertura della caccia di quell’anno che vi ho raccontato?. Forse nulla ma nei particolari che ho raccontato ed in molti altri, che ho trascurato o scordato, vi è racchiuso tutto un mondo che solo se hai vissuto puoi capire e che è fatto di tanti aspetti che fanno parte dell’animo umano, a partire dal divertimento, dall’amicizia, al godimento di vivere a pieno una passione così trascinante in piena libertà ed in luoghi che definire incontaminati non è esagerato.
Che l’apertura della caccia anche ai giorni nostri ti dia sempre stimoli ed euforia, unite alla speranza di una buona annata, è un fatto certo, ma quella di cui vi ho raccontato lo era ancora di più in quanto ancora il territorio ti gratificava e non lo avevamo avvelenato con pesticidi di ogni genere, non erano tante le restrizioni legislative cui dovevi sottostare, la presenza di selvatici era ancora abbondante e soprattutto avevamo un bel giocattolo che ancora funzionava.
Prima del ritorno il solito rito della sosta in prossimità di un altarino dedicato a San Francesco, ricavato su di una fontana che ristora con la sua acqua i passanti e chi come noi ha vissuto una mattina di molti anni fa tra il caldo asfissiante, tanta fatica ed altrettanta emotività. Il ricordo di quel piccolo altarino mi fa rivivere momenti magici, quando in quei luoghi con mio padre, già dall’8 di dicembre, festa dell’Immacolata, venivamo ad insidiare le cesene e lui fervente uomo di fede era solito fermarsi sempre per una preghiera.
Ma questa è un’altra storia…
Carmelo Chirico
LA VIGILIA DELL´APERTURA di Carmelo Chirico
GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: LO STANDARD DI LAVORO DEL SETTER INGLESE di Angelo Di Maggio
Questo articolo è estrapolato da “Gare col Cane da ferma e Spaniels”, testo prodotto e gentilmente messoci a disposizione dal Sig Di Maggio Angelo, Giudice Cinofilo e grande appassionato di caccia; egli, grazie all’esperienza acquista sul campo quale giudice della Libera Caccia, ha giudicato e giudica in gare organizzate da qualsiasi “associazione venatoria” che da questa sia chiamato a farlo.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, è della lunghezza complessiva di circa settanta pagine; pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, cercando di mantenere continuità di contenuti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti gli operatori del settore, aspiranti giudici, delegati cinofili o semplicemente appassionati del magnifico mondo delle gare cinofile.
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Cinofilia”, che ciascuno potrà stampare e tenere come manuale completo ed esaustivo, da consultare in qualsivoglia occasione.
GLI STANDARDS DI LAVORO
Sono degli eccellenti strumenti per la descrizione dello stile di una razza ed elementi essenziali che un giudice deve assolutamente conoscere.
E perchè non sorgano dubbi di sorta, li trascrivo così come li ho trovati.
Il setter inglese
Sta nel rettangolo, ossia la lunghezza non è pari all´altezza.
L´andatura è di galoppo spigliato, elegantissimo e rapido, ma non impetuoso, così che, paragonandolo a quello del pointer, è di velocità di poco inferiore.
A parità di lunghezza del tronco, si svolge secondo una linea presso terra (rasente) e a seconda delle anche più lievi ondulazioni del terreno, di modo che risulta più “pieghevole”. E ciò è in relazione alla struttura prevista dallo standard (corrispondente alla psiche) che lo rende atto ad un diverso movimento degli arti.
L´omero del pointer, più corto rispetto al radio, diminuisce le possibilità angolari e forse la distanza di appoggio degli arti anteriori. Il posteriore poi è costruito per la sgroppata potente ed i due arti posteriori danno la spinta propulsiva in due tempi, ma più serrati, e si protendono maggiormente più indietro.
Nel setter inglese, invece, i tempi sono più larghi e gli arti posteriori lavorano più separatamente. Nell´insieme si ha l´impressione di un sistema di locomozione non meno perfetto di quello del pointer, quantunque diverso: più elastico e meno audace, atto anch´esso alla più grande resistenza.
La coda è portata secondo il prolungamento della linea renale, con tendenza al basso (mai più alta) ben viva e nervosa; nei rettilinei, a grande velocità, oscilla solo dall´alto in basso. Ma poiché, come si è detto, egli non si preoccupa principalmente dell´andare, ma tende ad una maggiore analisi, così é per i facilissimi distacchi dai rettilinei, ove la coda frangiata gli è efficacissimo timone e per i continui lievissimi rallentamenti, con immediata ripresa, che s´impone; tenuto conto della sua natura, che chiara si rileva nei soggetti lenti, i quali battono allegramente la coda in cerca; per tutte queste ragioni concomitanti, nei grandi “trialer” si notano oscillazioni dall´alto in basso, spesso combinate con moti trasversali, che si traducono in rotazioni contenute, ritmiche con il galoppo, ora verso destra, ora verso sinistra, in dipendenza della rotazione del tempo di galoppo.
Portamento di testa e naso alto, ma non in modo costante e rigido come il pointer; la testa è più mobile, denotante vigilanza nel compito olfattivo, mentre in quello (pointer) pare quasi che tutto si svolga automaticamente. Le orecchie, vive e leggere, vibrano tra la nuca e il collo senza sbatacchiare troppo sopra e sotto il cranio ad ogni tempo di galoppo.
Entrando in una zona lievemente impregnata di effluvio, questo trialer si abbassa in tutto il corpo, mentre talvolta il solo naso emerge dalle alte erbe. E rimonta nel vento, seguendo l´emanazione il più direttamente possibile, cauto e sospettoso, di trotto o di passo svelto con marcata concentrazione muscolare e movimento di scapole salienti. Il suo avanzare è silenziosissimo, ed il moto degli arti, così armonioso che spesso, se la vegetazione è un po’alta, dà l´impressione di spostarsi per virtù magica, tirato da un filo invisibile, avendo le zampe trasformate in scorrevoli rotelle.
Se si persuade che il selvatico è già frullato, man mano si rialza e, aumentando l´andatura, riprende la sua corsa abituale.
Se per contro si accorge della presenza del selvatico, gradatamente rallenta e si irrigidisce in “ferma“, sovente la maschera è atteggiata in un ghigno, l´occhio sfavillante, la coda desta e immobile, seguente la linea del rene, mai più alta, talvolta un po’arcuata. (La corda dell´arco passante sotto la coda).
E´ preferita, in questo caso, la ferma in piedi; eretta la testa; con la canna nasale orizzontale o montante; le orecchie ripiegate indietro, solo erette di tanto in tanto. Su lepre o su selvatico molto vicino, abitualmente le orecchie sono erette.
Se, in cerca, taglia una zona impregnata di effluvio che lo rende immediatamente certo della presenza del selvatico, con una concentrazione improvvisa si rimpicciolisce e si arresta in posa da felino in caccia.
Inizia la “filata” come su descritta, ma quasi strisciando, lo sterno rasente terra, con flessioni eccezionali, e tutte le giunture degli arti, che gli consentono, anche in quella positura, un passo assai lungo, paragonabile a quella del felino, incompatibile, ad esempio, con la struttura del pointer. Il gioco delle scapole è visibilissimo dalle punte molto sporgenti sul garrese. Poi man mano si rialza un po’e va in ferma come già descritto, più o meno a terra.
Se poi al galoppo entra improvvisamente nell´effluvio diretto, per poca che sia l´erba, sparisce a terra, come inghiottito per incanto; avvicinandosi, lo si trova in pose incredibilmente contratte, spasmodiche, rigidissime.
La differenza degli atteggiamenti che precedono la ferma tra il pointer ed il setter inglese, fanno sì, anche a parità di naso, che quello (pointer) fermi più lungo, consapevole che la sua azione eretta e prepotente non gli consentirebbe di troppo avvicinare il selvatico, mentre questo (setter) sa che la sua azione, insidiosa e celata, gli permette di maggiormente osare.
Quando il selvatico, al giungere del conduttore, tenta di allontanarsi pedonando, il setter inglese lo segue preoccupandosi di mai perdere il contatto, senza volontariamente abbandonarlo, per ritrovarlo nel vento, facendosi ora serpe, ora pantera; allungandosi spesso inverosimilmente, sfoggiando le più svariate pose che l´orgasmo quasi voluttuoso del momento, impone al suo corpo flessuoso e plastico.
Si osservi che l´azione di “gattonata” è sempre tanto bassa e strisciante quanto più il setter ha timore d´esser visto dal selvatico (terreno scoperto). Quando, per contro, è assistito da buon vento, decisamente favorevole, e da vegetazione sufficientemente sviluppata, allora tutto il lavoro è più alto, a distanza, meno sospettoso e le ferme sono in piedi, con gli arti appena flessi.
Giudice di Gara Angelo Di Maggio
Nel prossimo articolo: GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: LO STANDARD DI LAVORO DEL SETTER IRLANDESE
I DISERTORI DELLA ROSATA
Disporre di una cartuccia i cui pallini non subiscano “dispersione” è il sogno di ogni cacciatore e preludio al “tiro perfetto” ma ciò, purtroppo, di solito non coincide con la realtà.
Una serie di soluzioni messe a punto dall’industria, che di seguito esamineremo, contribuiscono comunque a contenere questo problema, permettendo il mantenimento di una soddisfacente traiettoria per raggiungere la maggior distanza possibile.
In passato si riteneva che la “la dispersione del pallino” fosse solo causata dalla velocità dello stesso e che aumentasse proporzionalmente alla velocità di uscita dalla canna. Questa teoria è ormai superata in quanto le prove pratiche, effettuate avvalendosi anche di parametri che sfruttano i sempre più moderni mezzi tecnologici, hanno dimostrato che, al contrario, se si dispone di un pallino sferico, ed in grado di non deformarsi, questo tende a mantenere la sua traiettoria più tesa in maniera tanto più efficace quanto maggiore è la sua velocità.
In ogni caso, gli elementi che determinano il “grado di dispersione” dei pallini sono vari e qui di seguito cerchiamo di descriverli in modo più analitico:
* La Forma: il pallino deve presentare “minore irregolarità possibile”. Più esso tende ad essere perfettamente sferico, maggiore è la capacità di penetrazione nell´aria e, quindi, minore la possibilità di cambiamenti di traiettoria durante il tragitto, derivati dalla resistenza dell’aria.
Sia ben chiaro un concetto: non esiste sul mercato una tipologia di pallino “perfettamente sferico”, anche se, dai cicli produttivi, né scaturiscono di qualità molto diverse fra loro.
La gamma presente va da tipologie abbastanza grezze, fino ad arrivare a tipologie di pregio che si avvicinano alla sfericità assoluta. Tutto dipende dalla lavorazione. Con il classico processo a “caduta”, derivante dalla fusione del piombo, questi passa allo stato liquido attraverso un “vaglio” che determina la formazione di pallini di forma per lo più “ovalizzata” od a “goccia”. Attraverso i successivi processi di “sfericizzazione” e di “lisciatura” si ottengono pallini di maggiore uniformità e pregio. Ciò dipende dall´accuratezza con cui vengono svolte queste fasi.
* La Durezza del Pallino: non tutti i pallini presentano la stessa durezza; ne esistono, infatti, di vari gradi. La Durezza è inversamente proporzionale alla possibilità di deformarsi del pallino.
La conseguenza della deformazione del pallino è la deviazione di traiettoria che esso subisce e che comporta i due seguenti aspetti negativi:
a) allargamento della rosata;
b) disomogeneità nella concentrazione della rosata
C) minor spazio che il pallino percorre mantenendo la linea retta di tiro.
La deformazione del pallino avviene all´atto dello sparo e, quindi, prima della sua fuoriuscita dalla canna e sono due gli agenti che la determinano: la forte pressione in canna e il forte “attrito” che il pallino subisce contro le pareti della canna durante il suo percorso all´interno della stessa.
I pallini che tendono ad essere “meno duri”, ed anche più leggeri, sono quelli che generalmente derivano dagli scarti di piombo già utilizzati per la produzione di precedenti lotti e che, generalmente, contengono un’alta percentuale di stagno; questo materiale rende la lega ancor più leggera, meno resistente all´urto e, quindi, più deformabile.
Esistono sul mercato molteplici tipologie di pallini con durezze intermedie, ma quelli che presentano le durezze più adeguate sono quelli composti da lega contenente anche una percentuale di “antimonio” che oscilla dal 2,5 al 3,5%. Questi pallini sono sottoposti ad un rapidissimo processo di riscaldamento e successivo raffreddamento; ciò determina un effetto di carattere chimico che rende l´esterno della lega particolarmente duro, con conseguente forte “innalzamento del grado di indeformabilità”.
* Il “Rivestimento Esterno”o “blindatura”: i pallini di pregio maggiore subiscono ulteriore trattamento di rivestimento con leghe che conferiscono estrema durezza. Vengono generalmente utilizzati il “nichel”, il “rame” od entrambi. In particolare, il nichel permette di generare rosate estremamente compatte in quanto i pallini raggiungono un elevatissimo grado di indeformabilità.
* La “Pressione di canna”: all’atto dello sparo si genera una pressione che supera abbondantemente i 500 bar. A questa forte spinta si contrappone la resistenza dell´aria, già presente in canna, che provoca una “compressione” del pallino fino a generarne una deformazione che si accentua all´uscita dalla canna, determinando per il pallino stesso l’allontanamento dalla rosata utile. A volte queste deformazioni possono provocare deviazioni di traiettorie molto ampie, tali da raggiungere anche i 40°. Tale problema si riduce notevolmente se si utilizzano i “nichelati”, la cui durezza permette di resistere anche all´effetto della “pressione di canna”.
* Il Tempo di Canna: è rappresentato dal tempo impiegato dai pallini per compiere il tragitto dalla loro partenza fino all´uscita dalla canna. Fra le varie cause di deformazione dei pallini sopraindicate, il “tempo di canna” è sicuramente la minore e più trascurabile, ma può verificarsi nel caso non si disponga di pallini nichelati o, comunque, quando quelli utilizzati sono di qualità tutt´altro che eccelsa. Per questi l´effetto di deformazione è tanto maggiore quanto minore è il tempo di canna.
Un tempo di canna breve indica, infatti, alta velocità di fuoriuscita dei pallini e, quindi, anche alte pressioni generate, con conseguente maggiore rischio di deformazione del pallino a causa della pressione stessa e dell´”effetto fresatura”, con cui si definisce tecnicamente l´attrito che si genera dal contatto del pallino durante il suo moto contro le pareti della canna.
* La Velocità di Combustione delle polveri: per cercare di contenere il grado di deformazione dei pallini, le cartucce vengono progettate abbinando ad ogni tipologia di pallino una specifica tipologia di carica di polvere, a “maggiore o minore velocità di combustione”.
Va da sé che, per ridotte dosi di piombo (dai 24 ai 30 gr), si utilizzino polveri ad “alta velocità di combustione/vivaci”, velocità che tende a ridursi fino ad arrivare a quelle a “lenta velocità di combustione” per le dosi maggiorate che, il più delle volte, utilizzano cariche di piombo superiori ai 40 grammi.
Oltre a questi fattori sopraindicati non dimentichiamo anche l´importanza del borraggio: sua primaria funzione è, infatti, quella di proteggere il pallino dalla deformazione causata dal contatto dello stesso contro le pareti della canna del fucile; per tale motivo le borre contenitore sono da preferire alle altre.
Quindi da oggi, quando andate in armeria e acquistate una scatola di cartucce, magari spinti dall’efficacia visiva di una bella confezione, ricordatevi anche di chiedere all’armiere maggiori informazioni. Chissà che, dopo averle ricevute, non ne acquistiate altre.
Alessio Ceccarelli
IL CODICE CAVALLERESCO DEL CACCIATORE del Dr Armando Russo
Questa preziosa esortazione è tratta da un libello intitolato “Il Codice Cavalleresco del Cacciatore” (edito nel 1978),a me molto caro perchè regalato da una persona la cui cultura, passione venatoria e amore per la propria professione e la propria terra non smettono mai di stupirmi: il Dr Armando Russo, Giornalista e Federcacciatore.
Cacciainfiera lo riprone perchèsiamo convinti che il rispetto per la naturae per gli uomininon debba mai venire meno, nemmeno nell´ambito della propriapassione venatoria.
Norme di Educazione Venatoria
La caccia è tra le più tradizionali e diffuse attività sportive praticate; fa parte integrante della natura umana ed è stata una delle più importanti e prime attività dell’uomo.
Ai nostri giorni è diventata divertimento, evasione, ritorno alla natura e, quindi, va praticata con serenità d’animo e, soprattutto, con spirito cavalleresco, che è sinonimo di nobiltà, lealtà, educazione.
Quanto segue potremmo, quindi, definirlo:
“Codice Cavalleresco del Cacciatore”:
1 – I selvatici vivono grazie al bosco, alla macchia, ai coltivati ed in questi trovano naturale rifugio. Rispetta e proteggi dunque il regno vegetale evitando di danneggiare le piante.
2 – Gli incendi rappresentano un pericolo gravissimo ed irreparabile per le piante ed anche per i selvatici. Cerca quindi di accendere i fuochi in luoghi dove non via sia assolutamente possibilità di provocare incendi e, prima di andartene, assicurati sempre che il fuoco sia completamente spento e che nemmeno una brace accesa possa, in tua assenza, riattivarlo. Poni la massima attenzione nel fumare, che è la causa prima degli incendi. Spegni, dunque, accuratamente i cerini e, soprattutto, i mozziconi di sigaretta.
3 – Il contadino serio è il principale allevatore della selvaggina: coltivando assicura ad essa cibo e rifugio. Rispetta, quindi, le colture, i prodotti agricoli e gli alberi da frutto altrui. Danneggiando l’agricoltura provocheresti le sue rappresaglie e chi pagherebbe lo scotto sarebbe la selvaggina.
4 – Ricorda che la caccia è soprattutto sport e sport è sinonimo di agonismo; battaglia cioè tra l’uomo raziocinante e d il selvatico sensitivamente superdotato. Un vistoso carniere può dunque valere assai meno di uno apparentemente modesto perché quello che veramente conta è il modo in cui è stato ottenuto.
5 – Un vero cacciatore non è mai esibizionista. Evita quindi di appendere le tue prede al di fuori del finestrino o legarle al cofano della macchina; è inutile ostentazione della tua fortuna, anche se accompagnata da un poco di bravura.
6 – Spara soltanto quando sei sicuro del colpo ed hai le massime possibilità di uccidere il selvatico. Azzardando il tiro feriresti – nella migliore delle ipotesi – la preda, facendola soffrire inutilmente e, comunque, non riusciresti ad incarnierarla. E anche quando, sparandogli a distanza utile, ferisci un selvatico, cerca immediatamente di porre fine alle sue sofferenze perchè anche gli animali sono esseri viventi e sentono il dolore.
7 – Evita di sparare a selvatici giovani o non ancora completamente maturi. Darebbe come gloriarsi di aver picchiato un bambino!
8 – Le femmine di alcune specie di selvaggina sono in ogni tempo protette per legge, altre no. Ricorda, comunque, che anche quelle che non godono i benefici di legge hanno, in natura, il compito della continuazione della specie e, quindi, rappresentano la sopravvivenza stessa della tua passione. Rispetta, dunque, quando puoi, tutte le femmine, perchè questa è vera … “cavalleria”.
9 – Non sparare mai ad un selvatico quando sai di non poterlo raccogliere. Sentiresti, poi, l’amarezza di aver stroncato inutilmente una vita. (Questo caso può essere frequente in montagna quando si spara ad un ungulato o a qualche tetraonide in volo, perché posssono cadere in qualche burrone rendendo impossibile il recupero; ma è anche frequente quando si cacciano i piccoli uccelli al “passo”: se cadono al pulito sono facilmente recuperabili, ma se cadono nella fitta macchia sono irrimediabilmente perduti).
10 – Con i collegi cacciatori comportati sempre educatamente. Non tagliare mai la strada ad altri e non fare della caccia una gara di velocità a chi arriva prima sul selvatico. Cerca di essere il meno invadente possibile e non disturbare la tranquillità di appostamenti in funzione o la priorità di scelta di un cacciatore che è arrivato prima di te nella zona. Se lo farai, rovinerai la giornata ad altri ma, soprattutto, a te stesso perché nel tuo intimo avrai la certezza di non esserti comportato lealmente.
11 – Rispetta sempre il cacciatore anziano e cerca di non snobbarlo o, peggio, umiliarlo con i tuoi garretti d’acciaio e con la tua giovinezza. Anch’egli è spinto dalla tua stessa passione e potrebbe risentirsi di un tuo modo d’agire scorretto. Sa sarai capace di rendertelo amico, potrai imparare un’infinità di cose utili e sarà, soprattutto, la sua esperienza a farti da maestra.
12 – Evita sempre, anche se ritieni di aver ragione, discussioni sull’abbattimento di un selvatico. Darai al tuo rivale la soddisfazione di portarsi a casa quel capo di selvaggina, ma gli rimarrà pur sempre nel cuore di non avere avuto diritto a quel capo. Avrai in tal modo dimostrato il tuo spirito cavalleresco e non ti sarai rovinata la giornata con una sterile discussione che, comunque, non servita a far valere i tuoi diritti.
13 – Consegna sempre di buon grado la selvaggina da te abbattuta, scovata e inseguita dal cane altrui.
14 – Rispetta e fai rispettare la legge; è emanata nell’interesse di tutti e quindi anche nel tuo interesse. Rispetta gli agenti di vigilanza; sono tuoi alleati perché, imponendo il rispetto della legge, assicurano la continuità nel tempo della tua passione. Mostrati sempre educato con loro e presenta di buon grado i documenti che eventualmente ti richiedono. Se hai sbagliato riconosci il tuo errore ed, invece di essere arrogante, affidati alla clemenza loro e della legge.
15 – Aiuta sempre il collega cacciatore che si trova in difficoltà, anche se questo dovesse por termine alla tua giornata di caccia.
POMERIGGIO DI CACCIA (al Pitone…) dell´Ing Claudio Leonetti
Sono quasi le sei di un pomeriggio veramente caldo.
Strano Gennaio, quest’anno fa molto più caldo degli altri anni qui, nel Nord del Cameroun.
La mattina non riesco a cacciare oltre le undici ed il pomeriggio faccio fatica a fare due ore di “passeggiata”.
Il terreno è pressoché pianeggiante ma il mio “quintale” si fa sentire, guardo l’orologio e faccio cenno di tornare verso la pista dove ci attende Ibrahim con il pick-up.
Ho ancora mezz’ora di luce, quanto basta per rientrare al campo.
Ho sentito dei colpi, è il mio compagno di caccia Christian che ha tirato con il 12, avrà preso delle faraone; meno male, ero stufo di mangiare “Ris Parfumé” e sardine in scatola.
Visto che caccio il bufalo da solo, la visibilità è una condizione essenziale, non mi piace camminare a lungo nella vegetazione fitta senza sapere chi mi sta intorno.
Ieri mattina ho avuto una opportunità, abbiamo avvistato dei bufali e gli abbiamo teso l’agguato, di corsa gli ho tagliato la strada e li ho aspettati dove sarebbero dovuti uscire dalla vegetazione, a favore di vento. Vedo la bestia nera che esce dal fitto, non più di venti metri da me, vedo la testa ed il collo, è il primo del gruppo, si ferma, allunga il collo con il naso in alto e si gira verso di me, rientra fragorosamente nella vegetazione e gli altri lo seguono.
Che diavolo è successo, mi ha guardato, ma sono sicuro che non mi ha visto perché ero immobile, controllo il vento ed ecco la sorpresa, un refolo di vento contrario ha portato il mio odore. Accidenti che sfiga, non ho nemmeno fatto in tempo a vedere se era maschio o femmina; così è la caccia.
Ho ancora la scena davanti agli occhi e mi piace “ripassarmela” mentre cammino annoiato dietro il “pisteur” quando, in prossimità della pista, Hamadou fa un balzo all’indietro che quasi mi viene in braccio.
Dice qualcosa indicando in terra davanti a noi tra le paglie; ripete e questa volta lo capisco, dice “serpent bois” che suona più o meno “serpan bwa”.
Guardo in terra a tre, quattro metri da noi, ma non vedo niente, anche il “porteur” è in agitazione e mi indica un punto tra le paglie rade; lo vedo, è un grosso pitone che qui evidentemente chiamano “serpente legno o serpente ramo”, forse per le dimensioni o per il colore.
E’ una specie cacciabile, è incluso nella mia licenza di Caccia Grossa; so che non è velenoso, è un costrittore, ma so che ha due artigli in corrispondenza dell’orifizio anale, due spine di due centimetri di lunghezza che adopera per tener ferma la preda mentre la soffoca, devono fare un gran male quando entrano nelle carni di una gamba.
Per questa ragione non mi avvicino ulteriormente e lo osservo da circa cinque metri, vedo il grosso corpo raccolto in quattro spire, vedo la coda ma non vedo la testa, eppure vedo bene il corpo e la testa deve essere lì, dalla parte opposta alla coda. Accidenti non la vedo, mi avvicino un po’ e finalmente la vedo; è accostata al corpo e si confonde con il resto dell’animale, è in posizione di attacco, immobile e pronto a venirmi addosso.
Decido di tirare, tolgo l’ottica dal mio .378 Weatherby caricato a palle blindate, prendo la mira e faccio partire il colpo. Si alza un po’ di polvere, ricarico e vedo che il pitone viene verso di me, mi attacca, il corpo si muove compiendo delle anse, ma la testa è dritta verso di me, non punta le gambe bensì il viso, ho addirittura l’impressione che mi guardi negli occhi. Resto immobile, prendo la mira e tiro quando è a non più di un metro da me e questa volta lo prendo in testa.
Restiamo tutti e tre immobili ad osservare la scena, il serpente si muove ancora, ma oramai credo che non ci sia nulla da fare per lui. Adamou, il porteur, per sicurezza gli dà un paio di randellate sul capo.
Il primo tiro gli aveva sfiorato la testa e gli aveva bucato il grosso corpo, questo lo aveva sicuramente fatto infuriare. Sono rimasto di stucco, non pensavo mi attaccasse ma, d’altra parte, lo avevo ferito.
Ora bisogna prenderlo per metterlo sul pick-up, ma nessuno dei miei aiutanti lo vuole prendere con le mani (io ovviamente non ci penso neanche).
Li prendo in giro perché so che da quelle parti il pitone lo cacciano nelle buche dove si ripara dal caldo; un uomo si infila nella tana e lo tira fuori, con le mani e la lancia.
Ma come, gli dico, lo catturano con le mani e voi avete paura di prenderlo da morto?
Hamadou mi dice serio che l’uomo del villaggio che cattura i pitoni ha il “GRI-GRI“ del pitone. Haaa !!!! Gli dico, se è così allora ……
Nota: il gri-gri è un amuleto che lo Stregone del villaggio prepara e che i “credenti” portano al collo o legato alla cintura. Il gri-gri è personalizzato, spesso è un’ unghia o un corno o un sacchetto con dentro non so cosa che lo Sciamano prepara con cura e con molta ritualità. Ne ho una collezione, sia comprati che tolti ai bracconieri che vengono catturati nel Parco e nelle Zone di Caccia.
Ne ho uno di un Bororo (tribù nomade di pastori) con un dado di acciaio e 18 sacchettini, tanti quanti gli anni del giovane che ha commesso l’errore di entrare con la mandria di mucche nella Zona di Caccia. Lo Sciamano lo ha convinto che il “dado magico” gli fa da corazza, indossando il gri-gri è protetto dalle fucilate (come un giubbetto antiproiettile); ma non dalle randellate delle guardie del Parco della Benoué.
Finalmente caricano il Pitone sul pick-up e torniamo al campo, facciamo qualche foto di rito e poi cominciano a spellarlo.
Tutti i salmi finiscono in gloria; il pitone verrà un po’ mangiato fresco e la rimanente parte seccata al sole.
Dicono che è buono, come il pesce, bah !!! Mi tengo la curiosità ed il riso con sardine.
Quando torna Christian con il suo equipaggio gli faccio vedere la bestia; è rimasto a bocca aperta, in quindici anni di caccia nella zona non aveva mai incontrato un pitone, per giunta di quattro metri. I suoi aiutanti sono più interessati alla ciccia, sarà allora vero che è una leccornia.
Claudio Leonetti, Gennaio 2009
DUE ANTILOPI AL VOLO di Filippo Foti
Era il 1978 ed io ero ancora in Costa D’Avorio, alle dipendenze dell’Impresit Costruzioni ed eravamo impegnati nella costruzione di una strada che collegava Man-Touba-Odienne.
I primi 100 Km. del tracciato di quella strada attraversavano un tratto di foresta equatoriale quasi inaccessibile e la visibilità, in quello scenario, era ridotta a qualche metro, mentre il resto del tracciato si svolgeva nella savana pre-desertica e quindi accessibile anche con le macchine.
La savana ospitava ogni genere di animali e per chi come me era appassionato di caccia, c’era sempre la possibilità di fare esperienze indimenticabili, affinando scaltrezze e furbizie per vincere la diffidenza dei selvatici.
A tal proposito ricordo ancora quella volta che dovetti dare fondo a tutte le astuzie per avere ragione di due prede eccezionali.
Come mia abitudine ogni sera dopo il lavoro ero solito fare un giro, con il pc-up, per zone sempre da esplorare, ed in particolare quella sera mi addentrai su di una pista in terra che, lasciando la strada principale, si addentrava nella savana per qualche kilometro, e che terminava in corrispondenza dell’ansa di un fiume.
Ero solo, senza il mio fedele autista Alì, ma con la carabina MARLIN 30/30 sempre con me sotto il sedile, con una manciata di cartucce in una tasca, e non ero stato molto prudente, visto che abbandonare la strada principale in quei luoghi non era molto saggio, pensando ai pericoli che avrei potuto incontrare in una zona dove solitamente non passava mai nessuno.
Arrivato in prossimità del fiume mi fermai ed il paesaggio che mi si presentava era di uno spiazzo di circa mezzo kmq. senza alberi, contornato da un lato dalla fitta vegetazione del fiume e dagli altri lati da arbusti e boscaglia rada.
Mentre volgevo lo sguardo a quei luoghi, mi accorsi che in mezzo a quella radura vi erano due maschi di antilopi, intenti a pascolare, per nulla infastiditi della mia presenza, che non avevano percepito data la distanza che ci separava.
Erano due splendidi esemplari di circa 7-8 anni, e di provata esperienza data la loro età e comprovato dal fatto che il posto dove brucavano li metteva al sicuro da eventuali attacchi di predatori, potendo confidare in tante vie di fuga, o verso il fiume o dentro la boscaglia.
Da dove mi trovavo distavano circa 400 metri e non avevo alcuna possibilità di potermi avvicinare dato ero allo scoperto e non era possibile neanche tentare il tiro che avrebbe reso quasi nulle le probabilità di colpire una delle due antilopi, vista la distanza e la mancanza di cannocchiale. Mentre ero lì inchiodato in quella situazione senza via di sbocco, e stavo valutando l’idea di lasciarle pascolare e ritentare in un’altra occasione, tenuto conto che da lì a poco sarebbe stato buio, tentai l’ultima carta.
Tornai indietro, da dove ero arrivato, e costeggiando la boscaglia per circa 300 mt., non perdendo mai di vista le due antipoli, sino a quando non gli fui alle spalle e mi nascosi dietro un grosso arbusto di circa un metro di altezza che mi permetteva di avere una completa visibilità di tutta la radura.
Ciò che non era cambiato era la distanza che mi separava da quegli splendidi animali e quindi mi dovevo inventare qualcosa per farli spostare da dove erano, dato che io non potevo certo muovermi senza rendermi visibile a loro.
Acquattato dietro quel riparo di fortuna presi fiato e mi venne in mente di come quella volta riuscì a fregare quel colombaccio in Calabria. Ho pensato: “se provassi a tirare un colpo nella direzione delle antilopi, avrò una possibilità su quattro che vengano verso di me, a condizione che non percepiscano da dove arriva lo sparo, e poi nel caricatore ho sette cartucce, al massimo le spaventerò e farò ritorno al cantiere”.
Ho preso fiato ed ho tirato un colpo in aria verso la direzione delle antilopi ed ho aspettato quei secondi in cui, disorientate e spaventate, si sono messe a correre, e quale sorpresa nel vedere che mi venivano incontro senza sospettare dell’inganno.
A circa 150 mt. da me si fermarono, ancora spaventate, per annusare l’aria e capire il pericolo, ma il pericolo ero io che nel frattempo avevo ricaricato e dopo avere preso la mira e trattenuto il fiato, sparai colpendone una, che si accasciò all’istante colpita tra la pancia e la colonna vertebrale. Ero al massimo dell’eccitazione agonistica.
La seconda antilope, non appena la compagna stramazzò a terra, si diede alla corsa, e quale meraviglia nel vederla arrivare ancora verso di me, spostata sulla destra, tagliando quella radura con il solo scopo di raggiungere un riparo. Ora a voi sembrerà una balla ma mentre l’antilope correva presi la decisione da folle di tentare un tiro in corsa, forse ricordando i tiri d’imbracciata ad altri selvatici, e quando ebbi l’animale a circa 100 metri sparai, ricaricai e sparai ancora ed al terzo colpo lo spettacolo di quella massa di muscoli che si esibisce nell’ultima capriola e cade fulminata, colpita alla spalla.
Non stavo più in me dalla gioia e stavo per urlare quando mi accorgo che la prima antilope si era ripresa e che anche se visibilmente barcollante cercava un ultimo tentativo di fuga. Nella carabina avevo ancora due colpi e quando quella si fermò, forse per raccogliere le ultime forze sparai, ma niente, rimase immobile e malsicura sulle zampe, ricaricai e presi la mira con più attenzione sapendo che era l’ultima cartuccia e che l’animale ferito si sarebbe rifugiato nella notte ed addio preda.
Lo sparo fu istantaneo con il suo crollo a terra, stavolta non si sarebbe più ripresa. Mi sono avvicinato alle antipoli, con la carabina scarica, ma con il machete che non abbandonavo mai, e dopo avere finito una delle due ancora rantolante, mi sedetti per scaricare tutta l’adrenalina che avevo in corpo. Ma non avevo tempo per gioire poiché la sera stava arrivando e c’era il problema di recuperare le prede che pesavano circa 150 kg ciascuna e la macchina distava ancora 300 metri.
Decisi di coprirle con arbusti e sterpaglie in modo da rendere visibile il posto e nasconderle alla vista di predatori nel frattempo che fossi andato a cercare qualcuno che mi aiutasse a caricarle sul pic-up. Per fortuna incontrai un collega che con due operai faceva ritorno al cantiere e che mi aiutarono a recuperare le antilopi.
E’ stato un tramonto fantastico ed intenso di emozioni, ed ancora oggi ho davanti agli occhi quei due splendidi maschi di antilopi, di cui uno abbattuto in piena corsa (stile Western), con un fucile fantastico ed in più con una furbata che mi ha permesso di vivere quei momenti, che rivivo ogni volta che guardo le foto e mi perdo in quei ricordi.
Sono un appassionato e gioisco nel sapere che altri appassionati come me condivideranno queste mie esperienze, come io delle loro.
Filippo Foti
GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: STANDARD DI LAVORO DEL POINTER
Questo articolo è estrapolato da “Gare col Cane da ferma e Spaniels”, testo prodotto e gentilmente messoci a disposizione dal Sig Di Maggio Angelo, Giudice Cinofilo e grande appassionato di caccia; egli, grazie all’esperienza acquista sul campo quale giudice della Libera Caccia, ha giudicato e giudica in gare organizzate da qualsiasi “associazione venatoria” che da questa sia chiamato a farlo.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, è della lunghezza complessiva di circa settanta pagine; pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, cercando di mantenere continuità di contenuti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti gli operatori del settore, aspiranti giudici, delegati cinofili o semplicemente appassionati del magnifico mondo delle gare cinofile.
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Cinofilia”, che ciascuno potrà stampare e tenere come manuale completo ed esaustivo, da consultare in qualsivoglia occasione.
GLI STANDARDS DI LAVORO
Sono degli eccellenti strumenti per la descrizione dello stile di una razza ed elementi essenziali che un giudice deve assolutamente conoscere.
E perchè non sorgano dubbi di sorta, li trascrivo così come li ho trovati.
Pointer
Innanzitutto è da dire che il pointer “sta nel quadrato“. Significa che tanto deve essere lungo per quanto è alto. L´andatura è il galoppo impetuoso, allungato, velocissimo, con tendenza a grande costanza di ritmo e di direzione rettilinea.
Divoratore di terreno, nella traslazione, osservandolo di profilo, si vede il tronco oscillare solo lievemente intorno ad un punto immaginario (centro della figura) che è mantenuto allineato a distanza pressoché invariabile dal suolo, utilizzando così tutto l´impulso dei muscoli alla traslazione.
La facilità e l´eleganza del moto, rilevano in pari tempo eccezionale potenza e danno affidamento di resistenza inesauribile.
La linea dorsale resta dritta, solo la renale s´inarca verso il basso e scatta come molla, mentre gli arti posteriori si protendono indietro al massimo, in poderosa sgroppata.
Le orecchie vibrano, ma non sbatacchiano troppo al di sopra del cranio. Si direbbe che tutte le facoltà convergono ad un solo scopo, galoppare. Più d´una “cerca”, si direbbe una corsa sfrenata, tanto la fiducia nell´olfatto prepotente lo rende sicuro di sé. Piantato il naso nel vento ad incidenza favorevole, poco si abbandona ad esami di dettaglio.
La coda è portata secondo il prolungamento del rene, ma più alta, e nella galoppata rettilinea oscilla solo dall´alto verso il basso.
La “cerca” incrociata si svolge lungo ampie diagonali rettilinee, ben spaziate l´una dall´altra. Entrando in un lieve effluvio, devia la cerca verso l´origine presumibile, talvolta incrociando serrato, tal´altra con puntata decisa, ma senza troppo rallentare il galoppo. Persuaso che si tratta di un falso allarme, riprende la corsa come sopra descritta. Testa e naso sempre alti.
Quando, per contro, s´accorge che l´effluvio porta al selvatico, parte in “filata” (talora facendola precedere da un breve arresto subitaneo) con decisione sicura, “a colpi di spada”, con tempi di galoppo riunito, inframmezzato di rallentamenti e riprese di trotto serrato o di passo fremente, e di galoppo ancora per concludere in un arresto subitaneo, di scatto, come se avesse urtato contro una barriera a noi invisibile: “la ferma“.
Eretto, statuario, il collo proteso quasi facendo linea con la testa, la canna nasale orizzontale o ben montante, le narici dilatate, gli occhi sbarrati, demoniaci, le orecchie erette al massimo, i muscoli salienti, un arto anteriore sovente in completa flessione, ed uno posteriore sovente dimenticato inverosimilmente indietro, talora pervaso il corpo da un tremito della coda rigidissima, tesa o leggermente arcuata in basso (mai in alto).
E così resta, immobile, con espressione di certezza inesorabile.
Quando, per contro, entra, tagliandola, in una zona impregnata di effluvio, così che ha l´immediata certezza della presenza del selvatico, “scatta sempre” in breve ferma subitanea, e poi parte “a colpi di spada” come sopra descritto, per filare in ferma definitiva.
Se poi si trova d´improvviso a ridosso del selvatico, il che per lui costituisce un incidente spiacevole, ferma definitivamente e di scatto, con la testa meno alta, diretta verso il presunto rifugio del perseguitato; talvolta (nei ritorni a cattivo vento) compie per aria una giravolta di 180 gradi e cade come può, ma statuario, già irrigidito quando ancora in aria e resta come si trova.
In questo caso, e solo in questo caso, ferma a terra o accosciato, come conseguenza dell´irrigidimento della ferma e dell´istintivo ritirarsi, per sentirsi troppo a ridosso del selvatico.
Quando il selvatico tenta di allontanarsi pedonando, lo indica solo con l´erigersi anche maggiormente, portando la canna nasale decisamente più alta dell´orizzontale. Si direbbe egli non teme di perdere il fuggitivo.
Quasi si diletta di lasciarlo allontanare, come fa il gatto quando gioca con il sorcio.
Poi, quando il conduttore si avvicina, riparte a scatti e più spesso insegue non direttamente, ma taglia e ritaglia la direzione seguita dal perseguitato, con rapidi, brevi passate (lacets), di galoppo riunito, inframmezzato da qualche brusco accenno a fermarsi ed infatti conclude in una nuova ferma di scatto.
E così via, finchè dura la “guidata” che è un susseguirsi di “strappate“.
Questo “trialer” dalla foga divorante, non si presta spontaneamente a modifiche attenuatrici del suo grandioso lavoro in dipendenza di mutamento di selvaggina o d´ambiente; né sono desiderabili in gara, in quanto non è nella possibilità del giudice di valutare quanto possa essere frutto di volontà costrittrice e quanto conseguenza di incapacità o titubanza impeditrice, essendo indiscutibile che solo il lavoro del momento (e non altro precedente o seguente) può essere preso in considerazione.
Le azioni descritte corrispondono alle migliori condizioni di ambiente e di selvaggina; venendo queste a difettare, più o meno, quelle saranno proporzionalmente attenuate; ma di questo se ne dovrà fare giusta valutazione.
(Esempio: con selvaggina di scarso effluvio, in giornata calma, le ventate saranno più corte e quindi le filate brevi e le ferme più vicine. Il portamento sarà meno eretto e la canna nasale tenderà ad abbassarsi. Con selvatico che non pedona, mancherà l´azione di guida. La vegetazione molto alta renderà i setter inglesi meno gattonanti. Questi “trialers” saranno spesso fuori mano per ritornarvi poco dopo. Selvaggina differentissima potrà frullare spontaneamente a distanze iperboliche).
Ma non per questo si dovrà ammettere in gara classica una cerca più ristretta, un portamento di testa basso, una diminuzione decisa di andatura.
La sospettosa prudenza sostituita alla bella audacia, poiché, come si è detto, i grandi soggetti male si prestano a radicali transazioni, e d´altra parte si ridurrebbe il lavoro classico ad un “titolo” basso, accessibile anche alla mediocrità.
La ferma di consenso spontaneo è eretta in tutti i fermatori, nella posa della ferma d´autorità, sovente meno tesa; di scatto se i due cani sono molto vicini tra di loro o se quello che consente vede all´improvviso il compagno già in ferma; oppure preceduta da breve filata, se il fermatore sul selvatico è lontano.
Giudice di Gara Angelo Di Maggio
Nel prossimo articolo: GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS:LOSTANDARD DI LAVORO DEL SETTER INGLESE
AGGIORNATO IL DECRETO SU ZSC E ZPS
Con il Decreto del Ministero dell´Ambiente, approvato il 22 gennaio 2009 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n.33 del 10 febbraio 2009, viene aggiornato quello precedente del 17 ottobre 2007 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n.258 del 6-11-2007 in merito ai “Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)”.
Per scaricare il nuovo testo di legge con modifiche cliccare quì.
Per scaricare il testo dell’Ordinanza clicca quì
ZONE SPECIALI DI CONSERVAZIONE (ZSC) E ZONE DI PROTEZIONE SPECIALE (ZPS)
Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS), decreto del Ministero dell´Ambiente approvato il 17 ottobre 2007 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n.258 del 6-11-2007.
Per scaricare il nuovo testo di legge con modifiche cliccare quì.
FALCONERIA: IL MISTERO NEL VENTO di Pietro Pottino
Comiciamo da questa settimana un lungo viaggio nella Falconeria. Un viaggio in cui saremo guidati dalla competenza ed esperienza del Sig. Pietro Pottino che vogliamo, sin da ora, ringraziare sinceramente, per la disponibilità, l´umiltà e la dignità con cui ci ha aperto alla conoscenza di un mondo imperscrutabile, con la delicatezza sola di chi ama quello per cui vive, rispettandolo profondamente e vivendo nella sua osservazione, spettatore attento e silenziosodi ciò che la natura e l´uomo hanno saputocreare, nel rispetto reciproco.
Grazie ancora…
Che cos´è la falconeria?
Lo spiega meglio di tutti Federico II di Svevia col titolo del suo famoso trattato “De arte venandi cum avibus”.
E’ soltanto l’arte del cacciare con gli uccelli.
Credo che la falconeria, o provare a praticarla, sia un insieme di conoscenze tecniche e istintive che un uomo possiede.
Il rapporto con la natura, l’osservazione della vita in tutto il suo corso, fino alla morte, la consapevolezza che gli esseri che fanno parte del mondo, grandi e piccoli, predatori e predati sono nati per nutrirsi, prolificare e conservare a costo della vita il proprio territorio ci permettono di affrontare il rapporto con un rapace in modo paritario.
Uno sbaglio, che forse la nostra natura di uomini moderni ci porta a fare, è usare sentimenti più o meno buoni nell’addestramento di un falco.
La gentilezza, la fermezza, la determinazione sono le uniche doti importanti. In fondo un rapace deve rispettarti, così come tu devi fare con lui.
Certo, ci sono tanti accorgimenti che evitano o che limitano questi rischi, ma questa esperienza te la fai tutta a tue spese. Non troverai mai maestri in questo e in fondo è giusto che sia così!
Un mio caro amico, e anche mio consigliere, dice che non bisogna divulgare la falconeria, perché ci si deve arrivare un po’ per caso dopo avere tanto cercato. Molti si stancano di cercare, ma quelli che perseguono questo scopo e riescono sono quelli in fondo selezionati da loro stessi. Non so se ha ragione, forse no perché è una cosa troppo bella per tenerla tutta per sé.
Federico II diceva che un giorno senza falconeria era un giorno inutile!
Certo ci vuole tempo e, oggigiorno, posso senz’altro dire che decidere di praticarla diventa quasi una scelta di vita. I falchi vanno in muta e un falco da falconeria va tenuto in voliera da marzo a luglio (questo è il periodo di muta). In questo periodo che si fa? Si va in giro per le campagne a osservare i voli degli uccelli selvatici in corteggiamento o con la prole.
Assistere alla caccia di un falcone selvatico è qualcosa di assolutamente sorprendente anche per persone esperte.
Un puntino che picchia giù dal cielo a quasi 400 km/ora e sentire il tonfo dell’impatto con la preda…….. O vedere il maschio che torna al nido con la preda tra gli artigli e la femmina gridare nel modo loro caratteristico di chi dice: “Dammela che io a caccia non ci posso andare perché devo pensare ai piccoli!”
E’ così che avviene lo scambio della preda in volo. Arriva la femmina, si capovolge e il maschio gliela cede! E allora vedere volare un selvatico è l’unico modo per far capire a un futuro falconiere come il proprio falco dovrebbe volare e cacciare. Questo è il fine ultimo di un falconiere: riuscire a volare il proprio falco come un falco selvatico….ma non ci riesce nessuno!
Ecco, credo che la conoscenza “ottica” delle cose o alcune delle cose sopradette sia una tappa necessaria, se non fondamentale, per iniziare. Naturalmente lo studio della storia, aiuta a capire quali siano i viscerali motivi che inducono a tutto questo. Gli spettacoli, “le rappresentazioni di falconeria” che alcuni “operanti del settore” propongono a fini di lucro non solo non c’entrano niente con la falconeria, ma non sono neanche educativi. E’ solo una forma circense del presentare un rapace così come si può fare con un leone!
Pietro Pottino
Allevatore, addestratore e selezionatore Rapaci da Falconeria “Sparacia”
www.allevamentosparacia.com
rapax@neomedia.it
IL CIRNECO DELL´ETNA: L´ASPETTO E LA CACCIA di Armando Russo
“ ..e chi è, ‘ncani cirneco?”.
(detto siciliano per chi trova sempre quello che cerca….)
L´aspetto del cane
E’ quello di un cane da caccia, nato per la caccia e selezionato per la caccia. E’ un animale molto agile, velocissimo nella corsa e rapido nelle mosse. Già in tempi antichissimi adoperato in Sicilia per le battute al capriolo, al cervo e forse al cinghiale, esso è ancora oggi pronto a dimostrare la sua velocità sulla lepre e sul coniglio i quali, in terreno aperto e privo di cespugli, sono raggiunti e non hanno scampo; ed il suo coraggio è esaltato sulla volpe e sull’istrice, che non esita ad inseguire e, talvolta, uccidere.
Il Cirneco si impone all’attenzione dell’osservatore per la notevole rispondenza fisica al lavoro che viene chiamato a compiere. Ha una testa leggera che deve assolvere alla funzione di celerità e di rapidi bruschi movimenti, un tartufo piccolo che si armonizza in pieno col profilo del muso e che, nonostante le ridotte dimensioni, consente al nostro cane un olfatto finissimo.
Un buon Cirneco non dovrebbe perdere nemmeno un coniglio tra le montagne bruciate dall’estate agostana.
Le orecchie erette, pronte sempre a captare qualsiasi rumore sospetto, mostrerebbero l’origine rozza ed antica del nostro cane. Il collo arcuato, tutto muscoli e senza giogaia, è una leva scattante ed armonica per la testa levrieroide. Il corpo è una macchina che spinge l’animale al trotto, fino a galoppate velocissime e brevi.
I muscoli sottili e ben visibili sono poi adeguati al nostro cane che, dotato di temperamento nevrile, deve sostenere corse rapidissime, alternate a cambiamenti bruschi di direzione.
Foto: Blaz Kosak – Nome del cane: Taruf del Falco Rosso – Taruf proviene dalla Sicilia dal canile “del Falco Rosso”.
Agilità e velocità sono, quindi, indispensabili ad un predatore che deve scovare ed inseguire, sia pur brevemente, un selvatico quale il coniglio, noto per cercare scampo in repentini cambiamenti di direzione durante la sua corsa.
Il Cirnecoa caccia
In Sicilia la funzione più richiesta al cirneco non è quella di far compagnia all’uomo, ma di servirlo a caccia. Esso, più di ogni altra cosa, è un cane pratico, un cane da carniere…
Purtroppo nel mondo dei cani da caccia si osserva un fenomeno poco…sportivo: molti cacciatori, non troppo edotti, comperano a prezzi elevatissimi cuccioli di campioni che poi risultano, in campo pratico, meno che mediocri. Questi cuccioli sono figli di campioni nel senso estetico, cani di belle forme, ma di modeste prestazioni; mentre è noto che la bellezza in senso zootecnico equivale alla piena corrispondenza funzionale.
Il cirneco è cane prettamente da coniglio, ma si adatta bene alla coturnice, selvatico che spesso frequenta lo stesso habitat del lagomorfo; oggi, in realtà, lo si porta anche a caccia di quaglie, di beccacce e di croccoloni, che spesse volte punta o ferma con un atteggiamento che, se non può certamente competere per plasticità con quello delle razze inglesi, niente ha loro da invidiare per quanto riguarda l’efficacia..
Quindi, là dove è il regno del Cirneco (le falde dell’Etna), e oggi di buona parte della selvaggina, succede che gli altri cani non rendano, non siano capaci di cacciare nemmeno per un giorno; qui la razza sicula giganteggia, sopportando a lungo le più dure fatiche e resistendo molto bene alla sete.
Il suo pelo, la sua esuberanza nella ricerca del coniglio gli consentono di entrare con grande coraggio e decisione nel folto dei rovi e di stanare, pescandolo da vicino, il coniglio che non può…giocare a rimpiattino col cirneco, ma ha due sole possibilità: uscire dai rovi e quindi farsi sparare dal cacciatore o finire nelle fauci del cane, eventualità per altro non rara.
Questo modo di cacciare, pressando da vicino, è la caratteristica principale del Cirneco che, in tal modo, domina il selvatico. E’questa una delle azioni che fa prevalere questa razza sugli altri cani ed è la risultanza di molte delle sue qualità: ottimo olfatto, leggerezza, coraggio, decisione, intelligenza.
Per tutti questi motivi esso in Sicilia è sempre stato il cane per antonomasia, tanto che gli stessi Siciliani, per dire che un uomo trova quello che cerca, usano l’espressione “ ..e chi è, ‘ncani cirneco?”.
Parlando del suo carattere non possiamo non esaltarne l’affetto per il padrone e l’attaccamento ai suoi beni; infatti, questo animale, il più delle volte senza alcun addestramento, difende con ferocia e costanza ciò che appartiene al suo proprietario.
Cane duro, senza ombra di raffinatezze, indifferente ai dolori, alle fatiche e alla sete, è un degno figlio della calda Sicilia.
Dr Armando Russo, Giornalista e Federcacciatore
Sara Ceccarelli
GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: IL LAVORO DI COPPIA E IL CONSENSO di Angelo Di Maggio
Questo articolo è estrapolato da “Gare col Cane da ferma e Spaniels”, testo prodotto e gentilmente messoci a disposizione dal Sig Di Maggio Angelo, Giudice Cinofilo e grande appassionato di caccia; egli, grazie all’esperienza acquista sul campo quale giudice della Libera Caccia, ha giudicato e giudica in gare organizzate da qualsiasi “associazione venatoria” che da questa sia chiamato a farlo.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, è della lunghezza complessiva di circa settanta pagine; pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, cercando di mantenere continuità di contenuti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti gli operatori del settore, aspiranti giudici, delegati cinofili o semplicemente appassionati del magnifico mondo delle gare cinofile.
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Cinofilia”, che ciascuno potrà stampare e tenere come manuale completo ed esaustivo, da consultare in qualsivoglia occasione.
IL LAVORO DI COPPIA
Anche questo inventato dagli Inglesi, fu ben presto adottato dai cinofili italiani e per primo applicato nelle prove “a grande cerca” e “classiche su starne“; tale è passato poi nelle altre prove, ma solo per i cani da ferma inglesi, tranne che nel primo turno del Derby, in quelle su beccaccini e su selvaggina di montagna.
Per i continentali, il lavoro di coppia è preteso solo nelle prove su quaglie, ovvero per l´assegnazione del CAC e del CACIT, quando la prova è divisa in batterie.
Alla partenza, i cani non devono lanciarsi in profondità, sprecando terreno utile e trascurando la cerca incrociata prescritta.
I due concorrenti (i cani) devono partire in direzioni opposte e non convergenti.
Ho già detto che durante tutta la durata del turno, i conduttori dovranno inoltre procedere uniti ed affiancati a breve distanza fra loro e dai giudici, richiamando i cani e riportandoli col guinzaglio alla partenza dopo la conclusione di ciascuna azione.
a. i cani hanno fermato lo stesso selvatico ma non contemporaneamente: la risoluzione spetta sempre al cane sopravento; se niente si palesa, la responsabilità va allo stesso cane. Però può succedere che il cane sopravento, per portarsi a fermare, abbia omesso il consenso e quindi deve essere eliminato, ma deve prima risolvere il punto che, se positivo, va a vantaggio dell´altro cane, se niente si palesa nessun demerito va a carico del cane che aveva fermato per primo. Al frullo non si spara.
b. i due cani fermano contemporaneamente due selvatici diversi: si fanno risolvere entrambi se il giudice (o la giuria) può controllarli tutti e due; altrimenti si fa risolvere per primo il cane che si trova più vicino al giudice, poi l´altro. Si spara solo alla risoluzione del secondo cane; se si sparasse anche sul primo si disturberebbe il secondo ancora in ferma.
Il cane che si rifiuta ripetutamente di guidare quando è in condizioni di farlo viene eliminato, in quanto la guidata è la caratteristica prescritta al cane da ferma che deve mantenere il contatto con la selvaggina.
Il cane che “in guidataaccostata” alza altro selvatico, commette errore?
No, purché concluda senza distrazione sull’emanazione iniziale.
Il cane deve arrestarsi se il selvatico si arresta, proseguire in guidata se questo prosegue e non deve assolutamente costringere il selvatico a partire.
IL CONSENSO
Giulio Colombo: “Il consenso è l´atto col quale il cane, a conoscenza del lavoro del compagno, ne rispetta le manifestazione e ne accetta le conseguenze, con implicita approvazione“.
Sarò monotono, ma anche questo fu inventato dagli Inglesi, proprio in funzione del lavoro di coppia. Anche sul consenso c´è stata qualche discussione se qualità ereditaria o meno; ma le moltissime occasioni di notare, anche cuccioli, in consenso la prima volta che hanno visto altro cane in ferma, ha fugato i dubbi.
E´ qualità naturale e pertanto trasmissibile.
Quelli che non consentono è probabile che abbiano lavorato sempre da soli, ma è possibile che lo facciano spontaneamente, dopo che avranno visto fermare altri cani, lavorando con questi. E´ certo che le prime volte disturberanno il compagno, ma col tempo potranno riuscirci.
Obbligatorio nelle prove, il consenso di un cane alla ferma dell´altro deve essere spontaneo ed immediato (a comando solo nelle prove in cui esso è consentito) e deve durare fino al termine dell´azione del compagno, senza alcun intervento da parte del conduttore.
Può abbandonare il consenso solo se non vi è ferma rigida da parte del primo.
Il mancato consenso porta all´eliminazione, mentre il consenso stentato, a discrezione del giudice, può portare all´eliminazione.
Io aggiungo: basta che non infastidisca il compagno in ferma.
Domanda: Un cane ha ”consentito” sul compagno anche più volte poi ne manca uno deliberatamente; è errore?
Si, perché il consenso è obbligatorio in ogni circostanza.
Giudice di Gara Angelo Di Maggio
Nel prossimo articolo: GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: GLI STANDARDS DI LAVORO
L´ULTIMA BECCACCIA di Salvatore Gentile
Il fascino di una stagione ormai finita, il ricordo dei luoghi dove le giornate sono state propizie e generose, non si fermerà mai. Neanche i venti della nuova stagione riusciranno a cancellare la nostalgia…… pioggia, tuoni, saette, vento, e poi di colpo cielo sereno accompagnato da splendido arcobaleno….questo il grande spirito guida che accompagna la mia cara e antica passione e con essa la voglia di vivere per attendere una nuova stagione in compagnia del mio amico Fido.
Mi reco nella casa di campagna, dove lì attende con ansia il mio fedele amico, pochi minuti per indossare la mia gelosissima cacciatora, dono gradito dello Zio Michele, mi avvicino al box, dove impaziente aspetta Argo e via!
Via per quella generosa valle, che tradizionalmente dal primo novecento è stata e sarà sempre generosa, al mio rispetto per questi luoghi. Il profumo dell’erba medica combatte i mali di stagione, mentre le rogge al confine del grande bosco accendono il desiderio di poter incontrare l’ultima Regina di stagione.
Argo entusiasta esplora bene tutti gli anfratti, con la sua cerca sfrenata, dalla parte opposta di un canale, il temporale poco prima aveva abbattuto un pioppo lasciandolo un paio di metri sospeso attraverso il nostro percorso.
Argo, senza la minima esitazione, resta in ferma, durante la sua corsa sfrenata, intravedo la sua piccola mole Bretone dal mantello Bianco Arancio, mimetizzarsi in perfetta sintonia con l’ambiente circostante, quasi un dipinto d’autore.
Oggi i miei occhi Rimpiangono la Videocamera. Mi avvicino piano per servire la ferma rigida di Argo, facendo attenzione da evitare il frullo della Regina nel terreno affollato di saporiti lombrichi. Argo accorto della mia presenza, e come lo sguardo di una donna che sta per dirti di “Si” da adesso tutto può succedere, dalla realizzazione di un sogno allo svanire di una speranza.
Ad un certo punto, mentre alcune coccole sfiorano il mio fedele amico, il fatidico battito d’ali e, un istante dopo, la più grande emozione: quella, invece, di spararle, e abbattere l’ultima Regina di stagione.
Da oggi questa gioia di vita Accompagnerà nell’archivio del mio cuore, l’attesa della prossima stagione e con essa, nuove emozioni da archiviare…. Rincasando mentre l’ultimo giorno venatorio volge al termine, ripensando a quella insperata emozione, Argo sdraiato dinanzi a me, mi guardava con il solito amore ma il suo sguardo rivolto alla Regina era pieno di gioia, come dire: “ Si “ C’era, aspettava che…….
Salvatore Gentile
Cellole ce.
STORIA DELLA FABBRICA D´ARMI DELL´ESERCITO DI TERNI
La storia di questa Fabbrica parla di un Italia impegnata, volenterosa, capace anche di ricostruire se stessa dalle ceneri di un Paese sconfitto.
L´estensore di queste note, non ternano, ritiene che per poter apprezzare al meglio lo sforzo che l´Associazione dal 1993 sta effettuando per vedere realizzato ed aperto al pubblico il Museo delle Armi, si debba collocare lo stesso Museo nel contesto della storia sia della ex Fabbrica d´Armi dell´Esercito che della città di Terni ove detta Fabbrica è stata costruita.
Questa è una breve cronistoria documentale e fotografica di quanto detto.
Ringrazio i Soci Sandro Patumi, Giovanni Piana e Gianluca Albonetti per il contributo fotografico offerto all´Associazione.
DAL 1875 AL 1919
Poco dopo l´Unità d´Italia (1862), si parlò di istituire a Terni una armeria nazionale, in quanto Terni era ritenuta città strategica per la sua collocazione al centro dell´Italia e per la ricchezza delle acque che la circondavano : la proposta fu contrastata dal vicino Stato Pontificio e rinviata sine die.
La proposta fu reiterata e, nel 1869 il dr. Pietro Maestri, Direttore della Statistica al Ministero dell´Industria e Commercio scrisse sull´”Italia Economica”:
… Nel 1872 il marchese Luigi Campofregoso, esecutore degli studi e dell´insediamento del nuovo Stabilimento, nel suo scritto – Sulla straordinaria importanza militare ed industriale di Val Ternana – concludeva : “… Raccomando vivamente questa posizione ternana all´attenzione del Ministro della Guerra, della Commissione Generale di difesa dello Stato, dei grandi capitalisti e di tutti gli uomini intraprendenti“.
Il 19 marzo 1874 fu emanato il Regio Decreto che autorizzava la spesa per la costruzione di una Fabbrica d´Armi a Terni. E´ da tenere presente che a Terni esisteva già uno stabilimento siderurgico denominato “La Ferriera” e che, quasi contemporaneamente alla proposta di costruzione della Fabbrica d´Armi, il Ministero della Marina propose ed ottenne l´istituzione, sempre a Terni, di una acciaieria per la produzione di acciaio, costruzione di corazze e sbozzati di cannone inaugurato da Re Umberto I° nel luglio del 1887.
Il 2 maggio 1875, S.E. il generale Ricotti, Ministro della Guerra poneva la prima pietra della Fabbrica d´Armi di Terni, dicendo tra l´altro nel discorso inaugurale:
“Signori, la cittadinanza di Terni ha voluto onorarmi del mandato di collocare la prima pietra della Fabbrica d´Armi che qui, per voto del Parlamento e determinazione del Re, deve essere impiantata.
…Tra breve, qui sorgerà un grandioso Stabilimento dello Stato che darà lavoro ed onesto guadagno ad un ragguardevole numero di operai e quindi non lieve vantaggio alla città; e, fornito delle macchine le più perfette e d´ogni mezzo più acconcio, potrà, lo spero, prontamente gareggiare colle più rinomate fabbriche d´armi dell´estero, sia per quantità come per qualità dei prodotti. … Con questa convinzione, in nome di S.M. il Re d´Itala Vittorio Emanuele II pongo la prima pietra della Fabbrica d´Armi di Terni. ”
2 maggio 1875: Posa della prima pietra della Regia Fabbrica di Armi di Terni
Lo Stabilimento occupava l´area concessa gratuitamente allo Stato dal Comune di Terni, ad Est della città, sulla strada che porta in Valnerina e lungo il viale intitolato, successivamente, a Benedetto Brin.
Lo Stabilimento fu inaugurato nel 1880 ed era costituito da un fabbricato principale e da laboratori costruiti normalmente al fabbricato; fu creato un poligono di tiro di 200 metri per le prove delle armi.
L´energia motrice era di oltre 1000 cavalli che, dalle turbine arrivava agli alberi principali di tutti gli impianti e che, attraversando longitudinalmente i laboratori, la distribuivano agli alberi secondari e loro rimandi. Le maestranze arrivarono in gran parte da Torino, Brescia e Torre Annunziata e si cominciò a lavorare sui fucili Vetterli mod. 1870 ad un ritmo di 25 fucili all´ora.
Nel 1891 fu progettato il fucile mod. 91 cal. 6,5: della Commissione facevano parte il Direttore della Fabbrica d´Armi di Torino col. Alessandro Olioli – Fasola, il Capitano Giuseppe Vitali ed il capotecnico Salvatore Carcano. La costruzione del nuovo fucile fu affidata alla Fabbrica d´Armi di Terni.
Nel marzo del 1918 le maestranze erano 7.172 di cui oltre 3.000 donne con due turni di lavoro da 12 ore.
Terni 1895 : Piazza Cornelio Tacito
DAL 1919 AL 1946
Tra il 1919 ed il 1921, per mancanza di commesse, l´attività dello Stabilimento diminuì al limite della paralisi che fu superata con il ripristino di parti d´arma e con vari studi e trasformazione che permisero la piena ripresa dello Stabilimento e, tra il 1935 ed il 1940 il macchinario fu quasi per intero rinnovato.
1920: FAET e Piazza C.Tacito con il monumento ai Caduti
In Piazza CornelioTacito, nel 1935,al posto del monumento ai caduti trasferito all´ingresso dei giardini pubblici, viene costruita la Fontana “penna e calamaio” come viene subito soprannominata . Opera degli architetti Ridolfi e Fagiolo, la fontana caratterizza tre fasi distinte. Nella prima l´acqua nasce al bordo del catino sotto forma di velo per scorrere sulla superficie decorata dall´artista Cagli con i segni dello zodiaco; nella seconda l´acqua precipita in una ulteriore vasca per trasformarsi in energia rappresentata, terza fase, da un altissimo ago metallico rivestito di acciaio inossidabile.
Gli autori del progetto dicono della fontana “Si staglia nella notte come il simbolo e l´essenza stessa di Terni: industriale e dinamica “.
1935: Piazza Cornelio Tacito
L´ 11 agosto 1943, in uno dei 108 bombardamenti subiti da Terni durante la guerra, la Fabbrica d´Armi perse 34 persone tra cui il Direttore, Generale Antonio Passarelli e, nel mese di settembre i tedeschi trasferirono al Nord circa 3.000 macchine utensili.
FAET, 1939: Visita del Principe Umbertoedel Gen. Badoglio
Successivamente lo Stabilimento fu occupato dagli Alleati che lo lasciarono nel 1946.
Laboratori distrutti dai bombardamenti
DAL 1946 AD OGGI
Grazie alla bravura delle maestranze che restituirono il materiale prezioso (diamanti industriali) nascosto a proprio rischio, che rintracciarono molte macchine utensili e “ricostruirono a memoria” quelle perdute, lo Stabilimento riprese la propria attività occupandosi delle riparazioni e conservazione di armi italiane ed estere, di allestimenti di particolari meccanici e di studi e ricerche.
Piazza Cornelio Tacito: 1963 – 2000: La fontana è nuovamente il simbolo di Terni
Nel 1978, la Fabbrica d´Armi (F.A.E.T.) ha cambiato la propria denominazione in Stabilimento Militare dell´Armamento Leggero di Terni (S.M.A.L.T.) e, dal 2000 Polo Mantenimento Armamento Leggero (P.M.A.L.) che, con modernissime macchine utensili a controllo numerico ed impianti computerizzati per trattamenti superficiali di ogni tipo, regge il confronto con le industrie nazionali provvedendo anche al “supporto logistico” delle nostre truppe all´estero.
Il Polo Mantenimento Armamento Leggero: anni 2000
“…Con l´Augurio che la città di Terni, il Polo Mantenimento Armamento Leggero, l´Associazione “Museo delle Armi – Città di Terni” ed il Museo delle Armi – città di Terni possano sempre coesistere e rappresentare un pezzo della Storia delle città di Italia…”
Il Presidente Brig. Gen. (ris) Guido Pesce
FUCILI FINI… FUCILI D´AUTORE
Il “fucile dalle caratteristiche fini” deve per forza essere definito d´autore perchè chi realizza queste armi, che presentano indubbie peculiarità, non può che essere un´artista e non un semplice operatore del mestiere.
Il creatore deve metterci qualcosa del suo che esprima al meglio i propri gusti raffinati.
Lavorando poi, come generalmente accade, su specifica commessa, lo sforzo diventa ancora maggiore perché, oltre a possedere le sopraindicate doti, deve anche avere la capacità immediata di capire le esigenze ed i gusti del committente.
La realizzazione di questi fucili non avviene ovviamente su base standardizzata e industriale, ma è realizzata a livello artigianale.
A volte la realizzazione di un fucile può richiedere mesi ed addirittura fino ad un anno di lavoro, pertanto il prodotto che si realizza rappresenta un pezzo unico dai prezzi elevati, destinato a persone che non hanno problemi di disponibilità economica e dotati di passione smisurata per queste opere d´arte.
Tali pezzi rappresentano, inoltre, un vero e proprio investimento, un capitale da tenere e custodire con molta cura e non destinare ad usi venatori perchè anche un solo graffio rappresenta un danno di entità rilevante.
Fucili di questo tipo debbono essere considerati alla stregua di un mobile o di quadro d´autore.
La grande tradizione armiera italiana non è stata la madre di quest´arte che ha mosso, invece, i suoi primi passi in Inghilterra, con pezzi realizzati nei cosiddetti gun-makers. Generalmente, nell´arma si richiedeva un calibro particolare, un calcio in legno pregiato con magari un´impugnatura particolare o una batteria dotata di componenti o fattezze particolari. Anche in Belgio, nello stesso periodo, si diffuse rapidamente questa pratica.
Poi, alla fine del secolo scorso, questa tendenza ha preso piede anche in Italia, Paese che ha ancora una volta confermato, nel settore armaiolo, una creatività ancora unica al mondo soppiantando quasi immediatamente i nostri predecessori.
Esistono oggi modelli di arma molto curati nell´aspetto esteriore, arricchiti di favolose incisioni a tema, dotati di calci realizzati con legno di pregio e altri particolari di sicuro interesse, prodotti in serie limitata. Non possono essere, però, definiti fucili di gran classe o estremamente fini perchè realizzati, comunque, con un sistema di serie, mentre l´arma fine ha sempre un particolare o più particolari che sono unici nel suo genere e che esprimono appunto, oltre a ciò che richiede il committente, anche tutta la creatività dell´artigiano ad altissimo livello che mette nell´arma parte di se stesso, tutta la propria passione e la voglia di creare un qualcosa di unico che lo renda estremamente orgoglioso.
E´ questo l´aspetto più importante, prima dell´aspetto economico che, ovviamente, per persone qualificate a questi livelli è, e deve sempre essere, ben remunerato. Diventare maestri nel costruire fucili estremamente fini richiede molti anni di praticantato e perfezionamento continuo, oltre alle doti naturali. Non si diventa artisti per caso, ma bisogna nascere con questa passione o acquisirla fin da piccoli, magari imparando presso l´azienda del padre già produttore.
Chi possiede pezzi unici, od in serie limitatissima, di questi fucili sa bene che fra cinquant´anni essi avranno un valore economico estremamente alto, perchè trattasi di oggetti unici ed irreperibili sul mercato. Questo è sicuramente un aspetto positivo visto che si tratta spesso di un prodotto made in Italy.
Di questi armaioli/artisti se ne trovano sempre di meno; né è, purtroppo, esempio la zona di Gardone Val Trompia, patria del comparto armiero nazionale, ove le botteghe artigiane si sono ridotte rispetto al passato. Basti pensare, ad esempio, che gli Inglesi stessi, creatori di questo tipo di produzione di fucili, vengono oggi a reperirli presso il nostro mercato proprio per l´eccellenza del prodotto.
L´arma fine si distingue dal fucile sempre di elevato pregio per una sola cosa: la particolarità del dettaglio. Ovviamente, essendo molte le componenti di un fucile, sono molti i dettagli che possono essere personalizzati dall´artigiano; in ogni caso per non rendere troppo complesso il discorso, limitiamoci a ragionare sulle componenti che stimolano di più la fantasia e creatività di questi artigiani.
Vediamo di identificarle:
* il legno utilizzato: sempre di altissima qualità, viene svuotato in parte all´interno per permettere l´alloggiamento di parte della bascula; la collimazione deve essere sempre perfetta e, quindi, richiede da parte del creatore precisione “certosina”. L´acquirente deve poter, infatti, constatare che, smontando il calcio e poi rimontandolo, gli spazi in legno incavati per opera dell´artigiano collimano perfettamente con la sede di alloggio dell´intera batteria;
* la meccanica: cura nella perfezione degli scorrimenti delle parti in acciaio, impeccabile accoppiamento dei piani di chiusura, perfezione nel meccanismo di scatto, massima accuratezza nella realizzazione delle “ chiusure” che debbono essere perfette e mantenere anch´esse aspetto identico anche a distanza di molti anni. Generalmente, in questi casi le chiusure si appoggiano sui fianchi interni della bascula e sono bloccate da un tassello inferiore che ha una forma a ferro di cavallo. Anche questo aspetto è a discrezione del creatore che può utilizzare sistemi altrettanto funzionali ed originali;
* le batterie: sono quelle che danno maggior sfogo ai gusti del committente e, soprattutto, alla creatività del maestro artigiano costruttore. Sulle batterie si può agire in vari modi come, ad esempio, variando l´angolo di azione, la forma dei cani, la forma del/dei grilletti, la velocità e la potenza di scatto, sempre tenendo conto dell´effetto “durata nel tempo” del fucile.
* incisioni: ovviamente inserire un´incisione veramente originale, per lo più scelta dal committente, serve a rendere l´arma ancor più personalizzata ed unica nel suo genere, quindi non guasta, anzi rappresenta un´ulteriore valore aggiunto.
Fattore fondamentale per l´artigiano è sempre la piena consapevolezza che queste armi magari non verranno mai usate ma, siccome dovranno essere sempre più apprezzate negli anni a venire, la loro perfezione deve essere garantita nel tempo. Non è cosa da poco, per chi realizza un´arma estremamente fine, dover tenere conto di questo importantissimo fattore.
Quanto finora descritto può far pensare che l´artigiano abbia una mentalità tutta sua, magari antiquata e basata solo sulle sue capacità e senza l´ausilio della tecnologia. Non c´è niente di più falso; l´artigiano è creativo e capace prima di tutto perchè è intelligente e, quindi, utilizza ciò che la tecnologia mette a disposizione sfruttandola, però, solo per dare assoluta perfezione alle poche opere che realizza.
Nella produzione di serie, invece, la tecnologia serve, oltre che a creare un prodotto il migliore possibile, anche a favorire la produzione in larga scala ed in tempi ridotti, onde abbassare i tempi complessivi di produzione.
Partecipando all´ultima fiera dell´Exa di Brescia svoltasi l´anno scorso, ho potuto notare di persona dei veri capolavori prodotti in serie unica o in pochissimi esemplari; personalmente, sono rimasto particolarmente colpito da una serie di fucili Perazzi estremamente fini che è superfluo definire capolavori, ho notato anche come poi produttori di dimensione più piccola, come ad esempio la Luciano Bosis, la Perugini e Visini, la F.lli Piotti, la Renato Zanotti, la F.lli Rizzini, la Fabbri, la Famars, la Mauro Mattaglia (e mi perdonino quelli che non ho citato, ma anche la memoria ha i suoi limiti) realizzino fucili fini in serie limitata, più adatti al collezionista grande intenditore che al cacciatore.
Trattasi di armi di pregio assoluto. Questa tecnica di produzione, applicata in particolare alle doppiette, dà più possibilità di soluzioni alternative di quelle classiche al maestro artigiano che trova nel fucile basculante la possibilità di inserire un numero di variabili maggiore ad un non basculante.
Concludo l´articolo con una considerazione personale ma, credo, condivisa da tutti coloro che vedono nella costruzione artigianale di fucili l´espressione dell´arte per eccellenza. Mi auguro che questa forma di artigianato, che con così tanto successo ha portato e porta tutt´ora nel mondo il made in Italy, possa trovare presso i giovani maggiore linfa, onde evitare di perdere nel tempo questa nostra indubbia supremazia a livello mondiale, in particolare oggi, momento in cui la globalizzazione ha portato alla standardizzazione dei prodotti qualunque essi siano, offrendo sempre meno spazio all´eccellenza di questi maestri artigiani dovuta alla loro fantasia, creatività e capacità nell´esecuzione del lavoro.
Riccardo Ceccarelli
IL CIRNECO DELL’ETNA: UN PO´ DI STORIA di Armando Russo
Un po’ di storia …
Si afferma che questo cane si trovi in Sicilia almeno dall’età della pietra. In proposito si cita l’esistenza di una statuetta raffigurante una testa di cane, rinvenuta a Stentinello, uno dei villaggi più antichi della Sicilia, sito presso Siracusa: essa risale al neolitico inferiore e si è d’accordo nell’identificarne l’origine attorno al 4000 a.C.
Per quanto riguarda l’etimologia del nome “Cirneco”, essa non è unitaria. C’è chi vorrebbe far derivare il nome dalla città di Cirene. Il Dechambre, invece, vorrebbe far derivare il termine da “charnigue” o “charnegre”, che in spagnolo vuol dire “cacciatore di conigli”.
Nello stesso Paese, su sedici mummie di cani ritrovati, in buona parte essi avevano le misure del cirneco. Nessuno, quindi, può negarne l’esistenza in quei territori sin dall’antichità.
Compagno degli antichi Siculi dediti alla pastorizia, questo prezioso cane faceva parte anche della loro credenza religiosa personificando i concetti di fedeltà, di protezione e di rabbioso demone maligno. Lo si ritrova, così, nel culto di Afrodite Ericina, come in quello di Adrano; in quello di Agira e di Centurie, in quello dei Marmetini di Siracusa.
Il cirneco era fortemente apprezzato anche dagli antichi cacciatori, adoperato principalmente per la caccia al coniglio, ma che ben adattato anche ai volatili; corpo alquanto snello, orecchie tese, muso acuminato, lunga e mobilissima coda. Nelle antiche monete che lo raffigurano, è facile vederlo effigiato a caccia, in riposo e nell’intento di cibarsi di una testa di cervo. E’da notare che la coda di questo cane appariva spesso portata arrotolata sul dorso, cosa che ora l’ENCI non ammette.
Ci è sconosciuta anche la causa che indusse l’uomo, inizialmente,a convivere con questo animale. Si può pensare a motivi pratici: l’uomo sfruttava il cane per ottenere carne, magari all’inizio scacciando quei soggetti che, dopo aver abbattuto la selvaggina, si accingevano a mangiarla.
La denominazione geografica della razza è dovuta al fatto che le documentazioni più antiche sul cirneco, relative alla sua presenza in Sicilia, ce lo mostrano esistente ad Adrano, città sita proprio alle falde dell’Etna. Questo ha documentato il Dott. Migneco nel 1932, sulla scorta di monete risalenti al 1634 a.C., rifacendosi a scritti di Eliano ad al fatto che, proprio nella zona etnea, si trovava un gruppo di cirnechi che presentavano un aspetto più leggero degli altri.
Da questo antico confronto è possibile dedurre che ve ne fossero di diversi in altre zone dell’isola, e che questo cane non è proprio dell’Etna, ma di tutta la Sicilia, trovandosi sia nelle città delle costa nord occidentale, che in quelle orientali e nell’interno dell’isola.
Cirnechi di aspetto leggero, poi, si trovano ovunque in Sicilia, principalmente là dove il cane esplica la funzione della corsa, come ovunque in Sicilia si trovano cirnechi più tozzi, adatti meglio alla caccia tra i rovi; tutto in relazione ai diversi tipi di caccia.
La denominazione “generica” di Cirneco dell’Etna si potrebbe accettare configurando l’Etna come simbolo della nostra isola, anche se tale termine all’inizio non fu accolto bene dai tutti i Siciliani e non poche persone, per campanilismo, si sentirono quasi defraudate. In primo luogo per l’appellativo “dell’Etna” e poi perché l’ENCI ne aveva stabilito uno standard molto discosto dalle caratteristiche dei cirnechi che erano sempre esistiti in Sicilia.
Le differenze esistenti fra la razza riconosciuta e quella allevata ab antiquo dai cacciatori siculi appaiono abbastanza evidenti, anche se qualche volta riguardano soltanto delle sfumature morfologiche.
Il cirneco, fino al 1939, venne allevato in Sicilia con indirizzi eminentemente pratici. La sua selezione era imperniata sulla bravura degli ascendenti piuttosto che sui criteri estetici: bravura e capacità di resa erano imperniate sulla bontà di olfatto, obbedienza, passione nella caccia, agilità e velocità.
Il cane, quindi, sebbene non fosse stato selezionato in funzione delle esposizioni, subì tuttavia una selezione, sia pure incompleta ed inconscia, anche per le forme. Esso, infatti, prima della formulazione dello standard, presentava una curva di variazione molto più ampia di quella che può presentare una qualsiasi razza nei riguardi dello stesso.
I cani che venivano selezionati per i terreni poco cespugliosi apparivano forse molto più leggeri rispetto agli attuali, anche se più alti. I cani che venivano selezionati, invece, per la caccia dentro i cespugli apparivano più piccoli e più tozzi dell’attuale cirneco. C’erano, poi, i cani che stavano in mezzo, come prestazione e come formazione. Questo soggetti, che erano la maggioranza, venivano adoperati indifferentemente per i due tipi di caccia. Essi presentavano la testa più grossa dell’attuale cirneco, le orecchie non sempre ortodosse ed erano un poco più pesanti.
Il cirneco attuale accoppia la conformazione migliore all’uso che del cane si fa: la sua altezza è media, utile tanto al breve inseguimento quanto alla cerca tra i rovi ed la sua leggerezza di forma risulta ottima ovunque.
Tuttora in Sicilia non pochi cacciatori si servono del vecchio tipo di cirneco che denominano”indigeno” e trovano che la differenza tra le due varietà di cirnechi è poca…. Ai cacciatori pratici poco importa che il proprio cane abbia, ad esempio, il pelo ispido e le orecchie divaricate; a loro importa che il cane sia capace di assolvere in pieno la funzione richiesta….
Armando Russo, Giornalista e Federcacciatore
Sara Ceccarelli
Nel prossimo articolo: IL CIRNECO DELL’ETNA, L’ASPETTO, LA CACCIA E LA CACCIA
GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: SCOPO DELLE PROVE E LA NOTA DEL CONCORSO
Questo articolo è estrapolato da “Gare col Cane da ferma e Spaniels”, testo prodotto e gentilmente messoci a disposizione dal Sig Di Maggio Angelo, Giudice Cinofilo e grande appassionato di caccia; egli, grazie all’esperienza acquista sul campo quale giudice della Libera Caccia, ha giudicato e giudica in gare organizzate da qualsiasi “associazione venatoria” che da questa sia chiamato a farlo.
Tutto il materiale concessoci, evidente frutto di cultura del settore ed esperienza sul campo, è della lunghezza complessiva di circa settanta pagine; pertanto, per motivi legati ai limiti che inevitabilmente la lettura in video ci pone, abbiamo deciso di proporlo suddiviso per argomenti, cercando di mantenere continuità di contenuti, per renderlo più usufruibile da parte di tutti gli operatori del settore, aspiranti giudici, delegati cinofili o semplicemente appassionati del magnifico mondo delle gare cinofile.
Al termine delle pubblicazioni, che si susseguiranno settimanalmente, provvederemo ad unire tutti i singoli articoli pubblicati, in un unico testo, scaricabile in pdf dalla sezione “Cinofilia”, che ciascuno potrà stampare e tenere come manuale completo ed esaustivo, da consultare in qualsivoglia occasione.
SCOPO DELLE PROVE
Avuta cognizione di quanto il Regolamento prescrive, non guasta sapere qualcosa in più, a cominciare dalla “Nota del Concorso“, non prima di avere ben chiaro, però, lo scopo delle prove stesse.
Principio fondamentale è l´individuare e far conoscere i soggetti maggiormente idonei per l´allevamento. Servono soprattutto per porre in evidenza le qualità naturali di un cane, in queste compresa “la capacità di apprendere gli insegnamenti dell´uomo”.
Le qualità naturali tipiche della razza di appartenenza innanzitutto, non disgiunte da carattere, passione, olfatto e intelligenza, oltre alla velocità e resistenza, sono i “geni” ereditabili da un cane.
Sono perciò le varie prove alle quali quel cane partecipa e le varie qualifiche acquisite sul campo a dire se quel cane è degno di riprodurre.
Riuscirà a trasmettere? Questo è da vedere con la riproduzione, in base a quanti dei suoi discendenti riusciranno ad imporsi nelle prove ed in base a quanti altri si dimostreranno ottimi cacciatori.
Il cane che riesce a trasmettere molte delle sue doti darà molti ottimi cani da caccia. Questo, in sostanza, dovrebbe essere il fine dell´allevatore. Il condizionale è d´obbligo perchè, in realtà, si vuole produrre sempre più fenomeni.
L´ho pur detto in precedenza in questo mio lavoro! Quanti cani non “accettano” gl´insegnamenti?. Ho accennato al rifiuto (elusione) di selvatico sul quale è addestrato; potrei ancora far l´esempio di quel soggetto che, sgridato solo perchè passa dietro al conduttore, corre ai piedi di questi, si gira pancia all´aria e non vuol più riprendere a correre. Che si dice? “é permaloso!”; non è certamente una carenza di carattere?
Perciò, ritengo di poter concludere con una mia personalissima opinione: non solo bisogna vedere se un cane trasmette molte delle sue doti, ma in quale misura queste sono trasmesse e, principalmente, quanto del suo carattere riesce a trasmettere.
Le prove, pertanto, al solo fine della riproduzione.
LA NOTA DEL CONCORSO
Giulio COLOMBO la definiva: “lasciapassare per aver diritto a correre nei trials – carta d´identità del trialler“. Alberto CHELINI, invece: “il livello di prestazione richiesto ad un cane da ferma, per consentirne la partecipazione ad una determinata categoria di prove di lavoro. Da questo, non solo la necessità di suddividere le prove di lavoro in razze, ma anche in categorie all´interno delle stesse razze, secondo il lavoro che si pretende dal cane”.
Personalmente propendo per la seconda definizione, perchè fa riferimento al livello di prestazione che si richiede ad un cane, non al solo “trialer“. Non so da dove sia stato preso il termine “trialer” (sul vocabolario d´inglese non esiste tale termine), ma tutti i cinofili sono pronti a definire “trialer” il cane più veloce. Dall´etimologia, il termine dovrebbe derivare da “trial”, che significa “prova” e, pertanto, cane da prova.
E così, al Regolamento stabilire le prestazioni che sono richieste ad un cane per una determinata prova; al cane svolgere la prestazione e dimostrare se possiede le doti necessarie per stare in quella prova; al giudice stabilire se, ed in quale misura, quel cane ha dimostrato di essere idoneo o meno per quella prova.
Il “trialer” è in tutte le razze e trialer deve, secondo me, essere definito: quel soggetto che, oltre alla velocità (che la struttura morfologica tipica della sua razza gli consente) e la resistenza, dimostri di possedere al più altro grado, le qualità naturali, il carattere, l´olfatto, la passione, l´intelligenza e le capacità di apprendere gli insegnamenti dell´uomo; a qualsiasi razza appartenga, inglese o continentale che sia.
Mai bisogna dimenticare lo scopo preminente: “il migliore….. per la riproduzione”! E´ pertanto sottinteso, che quel cane che svolga una prestazione inferiore a quella richiesta per una determinata prova, debba considerarsi “non in nota”. La differenza, perciò, non tra cani di razze diverse, ma tra cani della medesima razza.
Giudice di Gara Angelo Di Maggio
Nel prossimo articolo: GARE COL CANE DA FERMA E SPANIELS: IL LAVORO DI COPPIA E IL CONSENSO
PASSIONE CACCIA di Carmelo Chirico
Passione. Termine coniato dall’uomo per giustificare comportamenti tali da non poter essere spiegati con la sola ragione.
Da tempo immemorabile poeti e letterati hanno profuso fiumi d’inchiostro per spiegare comportamenti tali da rasentare, in alcuni casi, la follia e che nulla avrebbero del ragionevole, e quindi insiti dell’essere umano, ma che dell’uomo fanno parte.
Ecco che, spiegare di follie fatte per una donna, o per qualcosa che ti attrae, a tal punto da mettere in atto comportamenti al limite della ragione e non spiegabili con la logica, non sempre è possibile.
Sentimento forte la passione che ti fa fare cose che normalmente non faresti, ed ecco che l’innamorato affronta qualsiasi pericolo e difficoltà per incontrare l’amata, allo stesso modo del cacciatore che intemperie, stanchezza e pericoli non fermano per un incontro con il frullo di una beccaccia.
Lasciare il caldo del tuo letto e la vicinanza della tua donna, in una gelida mattina di dicembre, ragionevole non è, se lo scopo è solo quello di inseguire selvatici tra mille intemperie.
Eppure quello che per la maggioranza è una follia per te è l’appagamento del tuo ego e che non può essere messo in discussione.
Per molti la passione trascende, molte volte, nella fissazione, e come dargli torto se i tuoi pensieri sono sempre rivolti a quello che ti appaga e del cui mondo fai parte.
Ho avuto modo di dire che non saprai mai perchè la caccia ti scoppia dentro, ma di sicuro sai che ti trascinerà in un vortice di emotività che ti riempirà la vita.
Non importa cosa tu caccerai e dove lo farai, di sicuro con il fucile in spalla e con il fedele amico al tuo fianco, andrai per boschi e colline scordando per qualche ora tensioni e follie del vortice in cui vivi, e se la tua abilità sarà premiata allora ritornerai stanco, ma felice, a rifugiarti tra le calde coperte e le braccia della tua donna.
Carmelo Chirico
ANTILOPE CAVALLO di Filippo Foti
Nel mio girovagare per il mondo, dal 1976 al 1979, ho lavorato come capo topografo in Costa D’Avorio, alla costruzione di una strada di 360 km di lunghezza, che collegava Man-Touba-Odienne, e vi posso assicurare che per chi ama la caccia, trovarsi in quella zona a cavallo tra la foresta equatoriale e la savana pre-desertica, era come trovarsi in paradiso.
In quegli splendidi scenari si trovava di tutto, pernici, faraone, anatre, oche dallo sperone, otarde, falchi di ogni genere, avvoltoi, lepri, antilopi, facoceri, ippopotami, elefanti, ogni specie di serpenti oltre ad una moltitudine di uccelli coloratissimi.
Era come vivere in un sogno per me che ero cresciuto in mezzo ai fucili e fin da piccolo la caccia faceva parte del mio DNA.
Il solo problema (unico ma enorme), che al mio arrivo nel 1976 dovetti constatare, era l’assenza assoluta di armi ed armerie, dove poter approvvigionarsi del necessario per poter gioire di tutto quel ben di Dio.
Ma la necessità aguzza l’ingegno e dopo qualche mese di ricerche ed anche grazie all’interessamento degli operai del posto, riuscì a trovare un cal.12 ad un solo colpo con canna da 76 cm. ma senza cartucce, che non si sa come era venuto in possesso di una donna che risiedeva in un villaggio sperduto nella foresta, e che me lo fece pagare ad un prezzo da capogiro.
Per circa un anno e mezzo ho cacciato con quel fucile e con qualche cartuccia della GEVELOT racimolata per miracolo, riuscendo anche ad abbattere delle antilopi con il piombo 00, finché un giorno nel nostro cantiere (eravamo circa 200 tecnici di tutte le nazionalità) un collega tedesco mise in giro la notizia che in concomitanza del suo imminente ritorno a casa, metteva in vendita una carabina MARLIN 30/30 ed una ventina di cartucce.
L’ho comprata senza esitare, pagandola almeno cinque volte il suo prezzo, ma con la gioia e la consapevolezza che avrei potuto cacciare ben altre prede, e durante tutta la serata, mentre me la riguardavo e la lustravo, già presagivo attimi indimenticabili.
L’indomani, al ritorno dai cantieri e lungo la strada, ho abbattuto un’antilope, ed ho continuato così per mesi immaginando sempre un incontro con la grossa preda.
Qualcuno riportò la voce che vicino al tracciato della nostra strada, nei presi di una vasta collina, erano stati avvistati dei grossi animali che per la loro diffidenza era difficile avvicinare e portare a tiro di un cal.12.
Io ero solito viaggiare a bordo di un Pic-Up fornito dall’impresa, e quel tipo di macchina possedeva un solo sedile su cui potevano viaggiare due persone oltre al guidatore, e sotto quel sedile avevo sempre con me il cal.12 e la carabina MARLIN 30/30, pronto ad ogni evenienza.
Tutte le sere al ritorno dai cantieri passavo per quella collina dove c’erano stati gli avvistamenti di grossi animali, e poiché attorno al promontorio vi era una pista carrabile, la percorrevo sistematicamente sperando in quell’incontro tanto sognato.
Il rumore del motore, oltre a farle sollevare il capo, non la disturbò poi tanto, sicura della distanza di sicurezza cui si trovava, mentre io avevo fatto cenno all’autista di fermarsi lentamente e di non fare bruschi gesti.
Il cuore mi batteva a mille, senza esitare ho azionato la leva della carabina, mettendo la pallottola in canna, ho aggiustato la tacca di mira alla distanza stimata e con calma mi sono appoggiato allo sportello ed ho preso la mira, quando il mirino si è fermato sulla sagoma dell’animale, ho fermato il respiro ed ho fatto fuoco. Un attimo e l’animale crollò fulminato e nello stesso modo mi sentii quasi venir meno per quello che vedevo.
Come quando ad una festa tocchi un palloncino con uno spillo e questo si affloscia in un istante, così l’antilope che mi stava guardando si afflosciò in un istante, senza un gemito o tentativo di sottrarsi a quella sorte, colpita sopra l’occhio destro dalla pallottola che non le aveva dato scampo. Ammetto che a quella distanza e senza cannocchiale ho avuto tanta fortuna.
Alì, il mio autista, mi abbracciò gridando tutta la sua gioia, e mentre ricaricavo l’arma siamo corsi insieme (dopo con calma ho misurato la distanza di tiro che era di 250 passi) lungo il pendio ed arrivati lì l’abbiamo vista: era ai piedi dell’albero dove poco prima pascolava, immobile come se dormisse, un magnifico esemplare di Antilope Cavallo (Bluball) di circa 250 kg..
La toccai con la canna della carabina per essere sicuro che fosse morta: era veramente morta stecchita, senza che se ne fosse accorta, in un istante era li inanimata. Scaricai la carabina ed insieme ad Alì ci gustammo quegli attimi successivi ad una doccia di adrenalina, unitamente allo spettacolo di quel tramonto indimenticabile.
Il mio autista (musulmano professante), cui sarebbe toccata quel ben di Dio di carne, s’incaricò di sgozzare l’animale durante la preghiera di rito, rivolto verso La Mecca, anche perché solo dopo quel cerimoniale religioso le carni potevano essere consumate.
Provvedemmo a prelevare la testa per poi imbalsamare a mo di trofeo, e la portammo al campo, accolti dall’ammirazione di molti ed un po’ dall’invidia di qualche collega cacciatore che non era mai riuscito in quella impresa. Il prezzo esagerato con cui avevo pagato quella carabina mi aveva ripagato, ed ancora oggi, dopo quasi 31 anni, solo a pensarci riprovo esattamente la stessa sequenza di emozioni, da quell’attimo in cui ho premuto il grilletto a quando “Lei” si afflosciata senza vita.
Più tardi sono tornato sul posto dell’abbattimento con quattro operai e qualche collega per portare in cantiere la carcassa dell’antilope, aiutandoci con un tronco che passava per le legature delle zampe. Quel trofeo ho cercato di imbalsamarlo personalmente io con la formalina che mi forniva la nostra infermiera, purtroppo il modo artigianale con cui era stato trattato fece si che dopo 6 anni cominciò a rovinarsi sino a deteriorarsi totalmente.
Filippo Foti
CACCIA AL CINGHIALE SULLA NEVE IN ALTA LANGA di Pasquale Carlo Galliano
Siamo a metà dicembre. Le previsioni meteo incoraggiano poco. E’ in arrivo la prima neve.
Ci si alza al mattino indecisi se partire per la cacciata o meglio restarsene al caldo sotto le coperte.
La neve ha ormai invaso ogni cosa con il suo manto bianco. Risulta assai difficoltoso spostarsi a piedi e con i fuoristrada ed altrettanto arduo individuare le tracce sul terreno innevato.
Miglior cosa sarebbe che con la neve non si cacciasse più. Va da se che qualunque animale con la neve alta diventa più vulnerabile ed indifeso, e la vera sportività della caccia, in tali situazioni, va sicuramente a farsi benedire. Purtroppo il cinghiale con i danni che arreca è considerato “nocivo” e quindi cacciabile in qualunque situazione climatica.
Dovremmo essere noi cacciatori ad avere il buon senso di gestire al meglio le cose.
Ci si confronta velocemente via radio con gli amici di battuta. La maggioranza è favorevole alla cacciata anche perché è provato che tutte le altre squadre della zona cacceranno. Lasciamo a casa i cani che in queste situazioni non riescono a procedere e i pochi amici dissidenti. Ognuno di noi effettua il suo giretto di verifica. Verso le dieci ci ritroviamo tutti presso la base e ci rendiamo conto che l’abbondante nevicata ha allontanato verso la bassa i cinghiali superstiti.
Diventiamo a questo punto spettatori e uditori delle cacciate delle squadre confinanti che hanno rintracciato branchi di cinghiali in fuga sulla neve alta, alla ricerca affannosa di cibo. Sentiamo i primi colpi poi altri, poi altri ancora, una vera mattanza. Quasi tutti i cinghiali dei branchi vengono abbattuti.
Non è possibile che ci si riduca ad un livello simile. Questa non è più caccia. Ci ritiriamo delusi e sconsolati. La domanda che ci poniamo però è la seguente: Se avessimo trovato anche noi i cinghiali ci saremmo comportati nello stesso modo? Ho paura di si, purtroppo.
Pertanto se è corretto l’antico proverbio: “chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ho timore che con la prossima annualità venatoria avremo tutti dei grossi problemi. Importante che ognuno di noi non si lamenti per la scarsità della materia prima, ma si faccia un bell’ esame di coscienza.
Pasquale Carlo Galliano